La macchina complessa del Viminale

Chissà se il capo dello Stato avrebbe parlato di saldezza della cornice delle istituzioni qualora il braccio di ferro sulla nomina dei ministri si fosse conclusa con la bocciatura del diritto di veto presidenziale. Dobbiamo sperare di sì, perché il problema della portata dell’ormai famigerato articolo 92 della Costituzione è stato solo rinviato.

Il modello adottato per la struttura del governo tradisce la priorità degli obiettivi. Un Presidente del Consiglio di campanello è coadiuvato da un plenipotenziario ombra che gode della fiducia dei due consoli e del capo dello Stato (che lo avrebbe gradito all’Economia). I due consoli sono vicepresidenti operativi e hanno deleghe specifiche e irrevocabili (perché autoassegnate). Come a dire che su sicurezza e immigrazione come su attività produttive/lavoro e assistenza sociale il Premier non avrà voce. Come non l’avrà sull’economia, perché il ministro competente sa bene fino dove può spingersi (dunque cosa non può fare), avendolo concordato preventivamente (per avere l’incarico). Gli altri ministri si muoveranno come capi divisione, illustrando le proposte sulle problematiche di competenza in Consiglio dei ministri, avendo già ottenuto l’avallo dal vice-presidente di riferimento.

Del resto è prematuro parlare, tutti sono ancora sottosopra per il diluvio di sorprese regalatoci da questa lunga e anomala crisi politica, istituzionale, partitica. Il compiacimento di Luigi Di Maio la dice lunga su quanto sia soddisfatto. Solo poco di meno, anche Matteo Salvini sembra gongolare per essersi seduto al Viminale. Speriamo ci metta un nanosecondo a rendersi conto di quanto possa essere difficile ottenere collaborazione e verità in un dicastero che ha funzionato splendidamente con un ministro come Angelino Alfano, il più moroteo (nell’azione) dei dorotei (per amore di potere).

Quando alcuni hooligans olandesi devastarono la Barcaccia di Piazza di Spagna dopo aver bullizzato decine di italiani e stranieri un vice-questore andò a difendere in tivù la strategia di contenimento (lasciamo distruggere tutto purché non ci siano tafferugli) urlando in conferenza stampa: “Non facciamo il morto”. Quasi che l’alternativa non poteva essere il solo manganello. Scrissi dello sgomento di fronte all’abdicazione di difesa dell’ordine pubblico e ricordai cosa successe pochi anni addietro ai tifosi di una squadra capitolina in Polonia (in gattabuia per diversi giorni dopo un bel po’ di randellate). Da allora quella strategia è divenuta protocollo.

Il Viminale è una macchina complessa, difficile da guidare. Se poi il capo dello Stato non perde occasione per dire la sua sul tema più delicato (...l’immigrazione è fonte di benessere...) c’è da scommettere che la navigazione del governo sarà di bolina.

Salvini sembra voler andare per la sua strada, facendo finta di dimenticare che il Governo di cambiamento è una miscela tra acqua e olio, che lo imbriglia. E, sopra tutto, sa che nasce con l’imprinting dell’inquilino del Quirinale (il Colle politicamente più alto di Roma), il quale non rinuncerà a rivendicare, con sempre minor timidezza, il proprio ruolo, grazie alla forza delle accresciute prerogative.

Se i cirri sul Viminale indicano vento forte in quota lo vedremo appena il Ministro dell’Interno renderà operativo il suo taglio ai fondi per l’accoglienza. O, magari, proverà a centralizzare (a Lampedusa ed altri due soli hot-spot in Sardegna e in Friuli?) la gestione dei flussi e dei rimpatri.

 

 

 

 

Aggiornato il 04 giugno 2018 alle ore 16:48