Siccome quelli con le Cinque Stelle ci hanno abituato a volare alto nei programmi a parole, e ad atterrare subito non appena si tratta di venire, come si dice, al sodo, magari a discuterne con gli altri, magari con la Lega, ecco che cominciano i problemi. Intendiamoci, per loro ma anche per chi li osserva. Problemi che si accavallano nella misura e nei modi in cui sono necessari a quelle che nella politica (quando c’era) si chiamano trattative, ma che ora, secondo il linguaggio del nuovo che avanza sottobraccio al nuovo modo di governare, non sembrano neppure incontri a due ma quel gioco alle carte chiamato solitario.
Meglio, molto meglio la Lega salviniana, comme d’habitude chioserebbero i francesi, abituata cioè dagli anni Novanta a discutere, trattare, pattuire, accordarsi (o meno) con gli altri, altrimenti di quali governi locali e nazionali si può parlare e, poi, gestirne la portata programmatica?
Il punto è che, da un rinvio all’altro, da una pausa di riflessione all’altra, da un primo piano televisivo (senza contraddittorio, si capisce) all’altro, e senza neppure rendersi conto del ridicolo suscitato anche fra chi il 4 marzo li ha votati - e sono tanti, ma proprio tanti - siamo, come si dice punto e a capo per la formazione del nuovo governo della Repubblica la quale, andrebbe loro ricordato, è la stessa dal 1945. Col rischio di peggiorare. Stessa Repubblica e, va da sé, stessa Costituzione. Nostre entrambe.
Scorrendo il programma M5S-Lega - come più volte rilevato dal nostro giornale - non è difficile incontrare punti non sempre allineati sul dettato costituzionale, a parte il fatto di volerlo cambiare insieme alla Repubblica medesima, ma nel frattempo rimane pur sempre un sorta di “en attendant Godot” che la dice lunga su proposte a dir poco discutibili e, non a caso, modificate dagli stessi proponenti come quel Luigi Di Maio per il quale lo smentire se stesso sembra quasi un dovere. Ma intanto l’attesa per Godot è identica da parte degli italiani dopo quasi tre mesi dal risultato elettorale. E non è casuale che la proposta più esclamata, specialmente dai grillini, rimane quella del taglio dei vitalizi parlamentari manco si trattasse di una riforma, come si diceva una volta, di struttura, quando invece non è che una riduzione di una pensione a chi ha fatto il deputato o senatore. Detto fatto? Mica tanto. Ci sarà da attendersi una serie di osservazioni più o meno istituzionali-costituzionali che renderanno quel taglio effettivo abbastanza complicato, anche nei tempi.
È la differenza che esiste fra il parlare e il fare, fra il detto comiziale e il fatto governativo, e al di là delle finalità della scelta che è e sarà indubbiamente popolare ma il cui spirito è squisitamente populista e demagogico non fosse altro che per la dimenticanza di nessun taglio per gli “stipendi” dei parlamentari, anch’essi non esattamente popolari, e comunque sempre assicurati mensilmente compresi i 90 giorni con le mani in mano a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Luigi Di Maio e Matteo Salvini, lo dicono loro stessi, non hanno sottoscritto un “programma” di governo, come sino ad ora si diceva in analoghe circostanze, ma un vero e proprio “contratto” mutuato già dal nome dallo storico “Contract Social” di Jean-Jacques Rousseau cui, peraltro, è intitolata solennemente dal Movimento 5 Stelle di Grillo & Casaleggio la famosa “piattaforma” che tutto e tutti guida. Tutto bene? Tutto di livello alto? Tutto sacrosantamente democratico?
Se leggiamo con attenzione certi passaggi contrattuali, come il punto 20 del medesimo, la proposta di abolire l’articolo 67 della Costituzione è più che evidente. Nell’articolo sta scritto che “ogni parlamentare rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Non si tratta di numeri ma di difesa della libertà e dell’insostituibile primato di coscienza del rappresentante eletto dato che, già nello Statuto Albertino del 1848 si legge che “i deputati non rappresentano le sole province in cui furono eletti, ma la Nazione in generale”.
Si sa, di questa libertà ci sono stati abusi, e in quantità esorbitante sol che si pensi al record di 566 cambi di casacca nell’ultima legislatura, di cui 40 nel M5S col grido di Grillo minacciante calci nel culo ai fedifraghi perché “non possono fare il cazzo che gli pare” ed eccoci ora all’abolizione dell’articolo 67 anticipata per i pentastellati da un ukaze del nuovo statuto che impone una multa di 100mila euro al parlamentare che lasci il gruppo. Una norma peraltro di non facile applicazione in quanto conflittuale con i regolamenti delle Camere e con evidenti contraddizioni con il dettato costituzionale. “Xe pèso el tacòn del buso” (proverbio veneto del 1800).
Aggiornato il 01 giugno 2018 alle ore 12:40