
Non era un manifesto politico quello che il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, aveva letto in apertura di un Consiglio permanente di gennaio: “Voglio essere chiaro sul fatto che la chiesa non è un partito e non stringe accordi con alcun soggetto politico”.
Però di elezioni aveva parlato, in toni chiari e articolando il pensiero attorno a tre verbi che hanno fatto emergere la totale opposizione - e, forse, anche una certa paura - alla prospettiva che a vincere le elezioni potessero essere le forze legate al populismo malsano: ricostruire (la speranza), ricucire (il Paese), pacificare (la società). Al centro della riflessione del numero uno dei vescovi italiani era chiaro il bene comune per tutti. Molto chiaro il punto centrale della linea illustrata da Bassetti: “È immorale speculare sulle paure della gente” e “bisogna essere coscienti che quando si soffia sul fuoco le scintille possono volare lontano e infiammare la casa comune, la casa di tutti”. Ebbene sì! Quella casa di cui parlava il Cardinale ha preso fuoco.
Assistiamo al declino della politica attuale e una considerazione emerge se si leggono le riviste e i giornali di sinistra (liberale, socialista, cattolica) della Prima Repubblica. Risulta evidente un dato comune, troppo spesso sottovalutato: l’eticizzazione radicale dello scontro politico. Criticare pesantemente i partiti concorrenti, giudicare negativamente i loro programmi, ricorrere talora ai colpi bassi, tutto questo è normale e fisiologico e rientra nella normale dialettica democratica.
Winston Churchill e Harold Macmillan non piacevano agli elettori di Clement Attlee e di Harold Wilson ma il conservatorismo dei primi non fu mai, per i secondi, motivo di delegittimazione morale e di squalifica culturale. Destra e sinistra venivano visti un po’ come la sistole e la diastole di un apparato cardiaco ben funzionante e non come la guerra degli angeli contro i demoni. L’impoverimento della politica attuale si è fatto sentire più che mai con la fine del bipolarismo e nelle nuove forme assunte dalla tentazione di dividere gli uomini in eletti e dannati, onesti e disonesti.
Roberta Lombardi, esponente del Movimento 5 Stelle, tempo fa ha invitato a prendere atto che “sono trent’anni che fascismo e comunismo in Italia non esistono più”. E, quanto al primo, ha dichiarato che “prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia”.
La deputata è stata sconfessata ma credo che abbia espresso il senso comune dei quadri politici - e soprattutto degli elettori - pentastellati. La novità, nel caso del M5s, mi lascia perplesso. Non è chiaro per cosa ci si batte ma è chiaro contro chi ci si batte: la casta, i partiti politici tradizionali, i banchieri che hanno rovinato l’Italia, i giornalisti prezzolati, ecc... La denuncia della disonestà da malumore periodico diventa una risorsa passionale vincente, alimentata da una magistratura che non si accontenta di perseguire i reati ma ne va alla ricerca e critica severamente la legge che regolamenta le intercettazioni (giacché, come ha detto il primo manipulitista prestato alla politica: “Chi non ha commesso niente di male non deve aver paura di essere intercettato”).
A questo punto, non sono le ricette di politica economica e le altre misure per guarire il Paese proposte da Beppe Grillo e Luigi Di Maio che contano, ma la loro cabina di regia politica in cui vengono elaborate, modificate, ritirate. Ciò che mi inquieta in questo nuovo populismo è il fatto che il moralismo, al quale si richiama, non esita ad alterare i princìpi su cui si fonda lo Stato di diritto: in sintonia con quanto sente l’uomo della strada che, pur di stanare i disonesti, butterebbe tranquillamente a mare il divieto costituzionale di mandato imperativo. Insomma più Stato, più tasse, meno benessere per le classi medie, più potere ai magistrati in guerra contro la corruzione, più controllo sociale. Si finirà col dire dell’Onestà quello che Madame Roland aveva detto della Libertà: “Quanti delitti in tuo nome!”.
Scriveva Alcide De Gasperi: “Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione, come dilettanti, e altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio di secondarissima importanza. Ma per me, fin da ragazzo è stata la mia missione. Rimanendo fedele alla mia stella, dovevo percorrere quella fino in fondo”.
Ecco! Dobbiamo ripartire da queste riflessioni, dalla cultura politica, dal professionismo, dalla maturità e dalla competenza. Solo cosi l’Italia si rialzerà.
Aggiornato il 31 maggio 2018 alle ore 13:10