
Silvio Berlusconi sembrava chiuso in un angolo con Matteo Salvini che lo utilizzava come alibi per il mancato accordo con i Pentastar (agitando lo spettro delle elezioni a luglio) e con Luigi Di Maio che non gli risparmiava bordate di dubbio gusto dipingendolo come l’uomo nero. Come detto su queste stesse pagine, in relazione alla formazione di un nuovo Esecutivo, a Silvio restavano due mosse: tenere duro facendone una questione di dignità o farsi da parte agevolando la nascita del Governo gialloverde anche se ciò avrebbe significato consegnarsi comunque al nuovo corso ignorantista e neodipietrista.
Come al solito esiste sempre una terza via che poi, essendo quella più sottile e tortuosa, è generalmente di difficile comprensione per i più. Berlusconi ha infatti optato per il fioretto giocandosela nel medio periodo: ha deciso di non impedire la nascita di un Governo Lega-M5S, di rimanere estraneo alla maggioranza ma senza porre veti nei confronti di chi come Salvini ha scelto di assumersi il rischio (tutto suo) di accordarsi con Di Maio. Non si è fatto da parte ma ha deciso lui di dare il via libera. E la decisione di non opporsi alla nascita di questa strana alleanza è il massimo che si è sentito di concedere anche in virtù degli impegni presi con gli elettori che avevano votato i partiti della coalizione pensando di premiare l’alternativa sia al Partito Democratico sia ai grillini. Mani libere per Salvini, quindi, con annessa apparente auto-collocazione di Berlusconi all’opposizione per una questione di coerenza.
Ma il Cavaliere qualcosa ci ha guadagnato, soprattutto dal punto divista personale, visto che se da un lato ha ottenuto una pubblica riabilitazione a denti stretti da parte di Luigi Di Maio che si è dovuto rimangiare certi epiteti offensivi nei suoi confronti, dall’altra ha avuto chiare rassicurazioni dall’alleato leghista circa l’assenza nel programma di governo di leggi contra personam (conflitto di interessi, leggi anticorruzione, leggi anti-Mediaset e giacobinate varie).
Politicamente invece Berlusconi ha fatto la figura del Padre della Patria escludendo ogni sua responsabilità sulla mancata nascita del Governo pentaleghista (qualsiasi intoppo sarà a carico esclusivo dei due neo-alleati) e riacquistando la centralità perduta. Sì, perché questa subalternità a Salvini ultimamente gli aveva procurato un certo imbarazzo che si poteva toccare con mano soprattutto quando, in occasione delle consultazioni al Quirinale, appariva alla sinistra del nuovo leader costretto a tacere o a fare siparietti per ricordare al mondo della sua esistenza.
Giggino Di Maio potrà anche dire che lui con Berlusconi non fa accordi ma comunque il Governo sta per nascere solo e soltanto perché è stato il leader di Forza Italia a permettere che nascesse consentendo una deroga ai vincoli di coalizione a Salvini. Quest’ultimo comunque continua a essere paradossalmente anche il leader del centrodestra autorizzando Berlusconi a considerarsi indirettamente in maggioranza, per interposto Salvini, con buona pace dei grillini. Scacco matto, adesso la pistola che Salvini e Di Maio puntavano alla tempia di Berlusconi è finita nelle mani del Cavaliere mentre al capitano lumbard è rimasto solo uno scomodo cerino tra le dita: sua è la responsabilità di formare il Governo, sua è la responsabilità nel caso i provvedimenti dovessero andare contro il programma sottoposto agli elettori, sua è la responsabilità di un eventuale flop, sua è la responsabilità delle promesse non mantenute, suo è l’onere in termini elettorali di una eventuale perdita fisiologica di consenso derivante dall’azione dell’esecutivo , sua è la responsabilità di una eventuale performance al di sotto delle aspettative.
Sì, perché una prestazione deludente è nelle cose stante il comportamento del capo dello Stato che ha cominciato già a mettere i primi paletti: niente sovranismi inattuabili, niente rimpatri di massa dei migranti perché non è consentito dall’Europa, niente misure che compromettano gli equilibri di bilancio, niente filo-putinismi che spaventino l’alleato americano, niente provvedimenti che turbino i mercati, niente ministri che possano indispettire Bruxelles, niente esternazioni anti-Ue, niente presidenti del Consiglio inadeguati a stare in consessi di alto profilo.
In pratica, Di Maio e Salvini sono in trappola perché obbligati a finalizzare l’accordo (pena uno spernacchiamento planetario), ma nel frattempo nascono già zavorrati dai numerosi paletti posti dal Colle che, cosa molto probabile, eserciterà ogni prerogativa costituzionale per mitigare gli slanci dei due giovanotti (a patto che essi ci siano). Cosicché costoro presto scopriranno che la Legge Fornero non si può toccare perché lo dice l’Europa, i migranti non si possono rimpatriare in massa perché magari i trattati internazionali lo vietano, il reddito di cittadinanza non si può fare perché ci sono gli equilibri di bilancio da rispettare, la flat tax fa salire lo spread, la legittima difesa non è costituzionale (per qualche strano balzello) e via sabotando.
A questo punto – e cioè dopo aver promesso invano la rivoluzione ed essere arrivati alla frutta – il fenomeno grillino si ridimensionerà e Matteo Salvini tornerà all’ovile da buon figliol prodigo.
Aggiornato il 12 maggio 2018 alle ore 14:39