
Chi manca del “Quid”? Tempo fa (Silvio Berlusconi dixit) venne fatto notare a proposito di un certo ministro ora dimissionario, un davvero piccolo leader che aspirava a crescere e prendere il posto del capo senza averne obiettivamente i requisiti. E siccome il tempo è galantuomo, l’auto-proclamatosi “Cavaliere” rosso-azzurro venne prontamente disarcionato ed estromesso dai templi e dagli altari dei talk-show nazionali, per poi ritrovarsi oggi senza popolo e voti elettorali necessari a garantirgli un minimo di rappresentanza parlamentare.
La premessa si rende necessaria per aggiornare l’esempio precedente prendendone spunto per l’attualità. Partendo da due metafore, innanzitutto. La prima è che, per la prima volta, dal cappello a cilindro del mago di Oz del Colle non uscirà (vivo, almeno) nessun coniglio. L’altro è che il diavolo fa le pentole ma dimentica regolarmente i coperchi: sicché il marcio si sente e tracima. E tutti e due gli inconvenienti suddetti sono dovuti a una causa basilare che riassumo in uno slogan intuitivo: siamo un Popolo senza “Quid”, elettoralmente parlando.
Da tempo, ben prima del direttore de “Il Foglio”, Claudio Cerasa (che anche l’8 maggio intitolava il suo editoriale in prima pagina: “Appello per una rivoluzione maggioritaria”), conduco in solitario una campagna per il passaggio dalla Costituzione del 1948 a un sistema presidenziale a doppio turno alla francese. Quello americano sarebbe molto meglio, ma a noi è mancata storicamente una vera guerra di indipendenza. Ora, visto che il coniglio quirinalizio nascerà senza orecchie né coda, quindi sarà un aborto istituzionale per definizione, mi sarei aspettato che almeno ci fosse in campo una chiara proposta di riforma elettorale in senso maggioritario e per voto di lista, da parte dei due proconsoli del movimento unico “Allarmi siam votanti!”. Quello, cioè, che ebbi a definire come l’Asso di Bastoni, che può solo abbattere e disarcionare leadership politiche ma non è in grado di scegliere una strategia “lunga”, ragionata e costruttiva, in assenza di un’adeguata riforma istituzionale.
Così, perdurando quell’assenza riformista, si rischiano due cose fondamentali. La prima è l’assoluta sfiducia e, quindi, la netta propensione all’astensione da parte di chi, avendo votato per l’alternativa così detta “populista”, si sia ritrovato ancora una volta a veder consacrata l’Europa di Bruxelles, l’Euro e la fedeltà assoluta al Patto Atlantico. Esattamente il contrario di quanto sostenuto in campagna elettorale dai loro leader. Il voto in identiche condizioni creerà un fortissimo, inconciliabile duopolio Nord-Sud tra Lega e Movimento 5 Stelle.
Il secondo aspetto riguarda le alleanze, quando l’elettorato di area si era sentito ripetere fino alla nausea che “non faremo mai accordi di governo né con l’uno, né con l’altro, ma al massimo accetteremo la loro donazione di sangue sui punti irrinunciabili del nostro programma. Perché, poi saremo noi ad avere la responsabilità di governare”. Un perfetto imbroglio, sapendo di essere in un sistema prevalentemente proporzionale dove contano le maggioranze parlamentari e, di conseguenza, le alleanze.
Quindi, ci si sarebbe aspettati che i vincenti-perdenti avessero appreso la lezione e si fossero coalizzati per introdurre l’uninominale a doppio turno di collegio, senza più nessuna componente proporzionale. Questo avrebbe spezzato le reni sia al potere coalizionale degli sconfitti, sia a quello dittatoriale e clientelare delle segreterie politiche, una volta orfane delle liste bloccate su scala nazionale.
Unica, magra consolazione: Renzi-Belzebù che aveva messo nel sacco il Partito Democratico con il suo strategico pacchetto di mischia alla Camera e al Senato non potrà più fare il bello e il cattivo tempo nella compilazione delle liste per il mantenimento dei suoi clientes. Ma, come si sa, il peggio non è mai morto.
Aggiornato il 08 maggio 2018 alle ore 12:28