
Ai tanti che auspicano oggi il reddito di cittadinanza, si potrebbe ricordare che nella storia del pensiero politico ebbero un illustre precursore nella persona di Thomas Hobbes. L’autore de “Il Leviatano” sosteneva che lo Stato debba garantire un sostegno minimo per i poveri. Questa posizione, frutto del risaputo timore che Hobbes ebbe sempre verso i conflitti sociali, e in netto contrasto con la filosofia di tipo borghese, scaturiva da una polemica che il filosofo formulò verso i pensatori antichi, Platone e Aristotele in particolare.
Nella Repubblica, Platone – come noto – descrisse l’anima umana divisa in tre parti (razionale, volitiva e concupiscibile), sostenendo che l’uomo di virtù, o filosofo – che per gli antichi era la stessa cosa – sia il solo capace di armonizzare le tre parti mettendone a capo quella razionale. Dopo aver realizzato un processo di elevazione interiore e compiuto una ricerca dentro di sé, aderendo al motto delfico, “Conosci te stesso”, il filosofo sarebbe stato anche degno di guidare lo Stato. Frutto di una concezione sostanzialmente benigna dell’uomo, a patto di distinguere tra liberi e schiavi naturalmente, questa posizione era condivisa da molti antichi, che sostenevano come attraverso l’uso della ragione l’uomo potesse elevarsi e vivere una vita degna del dio.
La città di Platone era uno repubblica per filosofi; un’utopia probabilmente, in cui alcuni hanno visto anche qualche riflesso totalitario di troppo, come messo in evidenza da Karl Popper nella sua apologia della società aperta. Una posizione meno radicale fu sostenuta da Aristotele, sostenitore della buona via di mezzo sia nella condotta etica, sia nella gestione della cosa pubblica. Lo Stagirita sviluppò la concezione dell’uomo come animale sociale e il principio che a guida dello Stato vi fosse il bene comune, non il tornaconto particolare. Il suo pensiero culminava con l’equazione virtù-conoscenza-felicità come occasione per l’uomo di elevare se stesso.
Con l’avvento della modernità, questa visione antropologica fu rovesciata da Hobbes, che rivoluzionò il pensiero politico come Cartesio riformò quello teoretico. Il filosofo sostenne che nello stato di natura, la fase pre-politica della società, gli uomini non fossero mossi da alcun principio razionale, bensì dalle passioni, dalla nuda e feroce volontà di conquistare ciò che è meglio per sé. Non si cerca più di diventare migliori, come sostenevano gli antichi. La ragione viene degradata a strumento per soddisfare i desideri e gli appetiti, o al massimo per comprendere come lo stato di natura sia una minaccia per la sicurezza stessa degli uomini.
Per Hobbes, la via d’uscita da questa condizione era la creazione di uno Stato artificiale governato da un sovrano assoluto, a cui tutti hanno sacrificato la propria libertà per un po’ di sicurezza. Se la repubblica degli antichi era basata su una convivenza armonica, in cui lo Stato si doveva fare promotore della felicità degli uomini liberi, in Hobbes lo Stato si è ritratto a garante di una cosa soltanto: la sicurezza dei cittadini. Di certo il pensiero di Hobbes ebbe il merito di porre l’uguaglianza naturale dei cittadini, a differenza di Aristotele per cui solo i liberi avevano il diritto di occuparsi della cosa pubblica, e della loro anima, ma questo nuovo paradigma, basato su una visione dell’uomo ripiegato sulle proprie passioni, sembra aver dimenticato quella lezione antica che spronava gli uomini ad eccellere, a dare il meglio di sé.
Si può approfondire questo discorso con l’ottimo libro, di carattere squisitamente teorico, di Alfredo Ferrarin, “Artificio, desiderio, considerazione di sé” (Edizioni Ets, 2005). Rapportandolo al presente, forse sarebbe bene ricordare qualche principio antico, dalla cui tradizione è figlio l’uomo come essere capace di perfezionarsi e diventare artefice del proprio destino.
È per questo che l’etica del merito, e dell’eccellenza, deve essere spunto anche per i nostri giorni. Rinunciare a questi valori, abbracciando un’apatica palude che riporta gli uomini al mero stato di sudditi, vuol dire rassegnarsi alla precarietà del nostro tempo, anzi adagiarvisi supinamente. Misure sociali che aiutino chi è rimasto indietro sono auspicabili, oltre che necessarie, per una convivenza libera e democratica, ma la misura più urgente è permettere a tutti i cittadini di realizzare se stessi. È questo l’obiettivo primario che uno Stato moderno dovrebbe mettere tra le sue priorità, la possibilità per tutti di progettare la propria vita, nel rispetto della dignità altrui e rimuovendo quegli ostacoli che si mettono di traverso alla libertà di ciascuno. Tutto questo prima che un grande Leviatano arrivi e ci inghiotta via tutti.
Aggiornato il 20 marzo 2018 alle ore 16:07