C’è da dire, innanzitutto, che l’estate mediatica tende a minimizzare le cose della politica. E non dobbiamo stupirci più di tanto se la diatriba fra due ministri dello stesso governo finirà ben presto in cavalleria, ammortizzata e poi spenta da altre faccende, magari un nuovo missile atomico lanciato da quel personaggio dal volto da cartone animato in cerca di guai, e non solo suoi.
Ma che i due litiganti, Marco Minniti e Andrea Orlando, occupino due ministeri non tanto e non solo contenutisticamente contigui, quanto e soprattutto di fondamentale importanza rispetto all’emergenza del tema migranti sullo sfondo del binomio fondamentalismo-terrorismo di matrice islamica, i loro dissensi meritano una qualche attenzione.
Rivediamo la dichiarazione del titolare del dicastero degli Interni: “A un certo punto ho temuto che, davanti all’ondata migratoria, alle barricate e ai problemi di gestione dei flussi avanzati dai sindaci, ci fosse un rischio per la tenuta democratica del Paese”.
E questa la replica del Guardasigilli dallo stesso palco della Festa dell’Unità in corso a Pesaro: “Non credo sia in questione la tenuta democratica del Paese per pochi immigrati rispetto al numero dei nostri abitanti. Non cediamo alla narrazione dell’emergenza perché altrimenti creiamo le condizioni, per consentire a chi vuole rifondare i fascismi, di speculare”.
Checché se ne dica da parte degli osservatori delle cose interne del Partito Democratico che iscrivono questa vera e propria divaricazione di giudizi in una sorta di querelle dai contorni puramente congressuali, personalistici, intrinseci all’attuale stato confusionario piddino, vale tuttavia la pena di andare un po’ più a fondo di questi motivi, che pure esistono, alla ricerca di un perché meno in superficie. La sicurezza con la quale Orlando ha respinto al mittente dirimpettaio di governo ogni preoccupazione sui rischi della democrazia ai quali, semmai, Orlando aggiunge i timori di una sorta di revanchismo fascista (dove lo veda, lo sa solo lui), è tipica, direi connaturata agli eredi diretti di quell’ideologia postcomunista ritenuta sua sponte, per sua derivazione addirittura storica oltre che politica, una garanzia democratica in sé e per sé, essendone la democrazia (con l’uguaglianza) costitutiva la stessa ragion d’essere della sinistra, al di là di governi, di ministri, di flussi migratori, di fondamentalismi e di terrorismi islamici. Beato chi la pensa così, ma assai meno beati i tanti che sanno perfettamente quanto una concezione del genere sia tanto astratta quanto velleitaria rispetto ai risultati e ne temono un esercizio tanto declamatorio quanto pericoloso, questo sì, per la tenuta democratica di un Paese.
Ecco un perché dell’esternazione del ministro della Giustizia. E se giocasse di sponda con Matteo Renzi, come da qualche parte si osserva, questo sarebbe ancora più preoccupante, in primis per un’altra tenuta, quella del Governo Gentiloni. Il problema di fondo è infatti il governo, la sua gestione sia day-by-day sia di interventi urgenti ed emergenziali, la serietà delle sue azioni, la capacità di cogliere le ansie, le paure e i desideri di un Paese oggettivamente immerso nella questione dell’immigrazione.
Con ciò non si vuole dare medaglie o dieci e lode a questo governo. Si vuole però sottolineare che l’enorme complessità delle democrazie moderne non necessita di certezze ideologiche e ne fa volentieri a meno, sentendosi assai più garantita e certa da governi e ministri che sanno il fatto loro. E almeno sulla questione dei micidiali flussi dalla Libia, la risposta di Minniti ha risposto a questi requisiti, dicendo pane al pane e vino al vino. Durerà? Indovinala Grillo!
Aggiornato il 02 settembre 2017 alle ore 09:54