Terroristi in cerca d’autore

Un aforisma, un commento - Luigi Pirandello ha scritto: “Frasi! frasi! Come se non fosse il conforto di tutti, davanti ad un fatto che non si spiega, davanti a un male che ci consuma, trovare una parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta”. Nei confronti del terrorismo, le spiegazioni politicamente corrette sembrano ripercorrere la strada descritta dal grande drammaturgo italiano.

Nei commenti ai recenti fatti di Barcellona si possono distinguere facilmente due orientamenti che, pari pari, riproducono, sullo sfondo, la consueta e ormai classica contrapposizione fra Karl Marx e Max Weber. Nella pubblicistica su carta stampata e televisiva, le motivazioni dei terroristi vengono infatti essenzialmente indicate in due modelli, non incompatibili ma di diversa impostazione. In nome di un sociologismo duro a morire c’è chi ritiene che i terroristi siano sostanzialmente degli emarginati. In questo modo si torna ad attribuire alla  “società”, come nel più banale ’68, ogni devianza. Non esisterebbero né criminali per attitudine né per altre ragioni: chi delinque lo fa perché, prima di tutto, si sente emarginato dalla società. C’è del vero, ma in misura non significativa. Infatti, non esiste alcuna sicura correlazione fra indigenza e criminalità. Per esempio, se in Italia, a causa della perdurante crisi economica, la quantità di indigenti è aumentata, non si capisce perché contemporaneamente la criminalità violenta non lo sia a sua volta o, addirittura, tenda a diminuire.

Questo fatto sembra confermare la posizione di vari studiosi, fra cui l’economista Alan Krueger secondo il quale la correlazione indigenza-terrorismo è solo un “falso collegamento”. Un’indagine accurata sulla situazione dei terroristi degli ultimi anni chiarirebbe se e fino a che punto essi provengano da famiglie economicamente indigenti o seriamente emarginate. Senza questi dati, tutto è lasciato all’ideologia sociologistica. Ciò che sappiamo del terrorismo nostrano degli anni di piombo indica, semmai, che la provenienza sociale dei brigatisti era media o addirittura medio-alta. Unica condizione sociale che consentiva loro di studiare e rielaborare le dottrine marxiane e di presentarsi poi come i portatori del Verbo per “liberare le masse lavoratrici”, le quali, in grande maggioranza, non avevano alcuna attitudine alla violenza e alla rivoluzione.

C’è poi il modello della cosiddetta radicalizzazione. Si tratta di una definizione giornalistica ormai d’obbligo ma decisamente imprecisa perché allude ad una sorta di plagio ipnotico. In realtà, se qualcuno si “radicalizza”, significa che c’era in lui qualcosa da radicalizzare poiché il nulla, di per sé, ovviamente non si presta ad alcuna forma di radicalizzazione. In cosa ciò consista è di difficile definizione e comunque di varia origine. Un giovane che non riesce a trovare lavoro o, avendolo trovato, pensa di non essere valutato per le sue effettive capacità, può essere preda di sconforto e frustrazione. Se qualcuno, di persona o tramite Internet, sfruttando quella frustrazione, gli dice e gli ripete che “è colpa della società”, ovviamente di quella capitalista, sussiste una certa probabilità che si “radicalizzi”. Si tratta comunque di una probabilità decrescente: il giovane in questione potrà decidersi a votare per la sinistra moderata, oppure per la sinistra estrema, oppure deciderà di frequentare i cosiddetti “antagonisti”, oppure passerà all’azione violenta. La stessa cosa accade, evidentemente, sulla base di altri nuclei emozionali o ideali come, appunto, la religione con i suoi precetti. Precetti che, nella tradizione musulmana del secondo Maometto, indicano la via della salvezza in termini di eliminazione fisica degli infedeli e del proprio sacrificio. Ovviamente, non tutti i giovani musulmani, emarginati o meno e residenti nei Paesi europei, si dedicano al terrorismo e meno che meno lo fanno i musulmani adulti o di mezza età. Coloro che lo fanno sono i pochi inebriati giovani che hanno individuato nella morte il compimento escatologico della propria esistenza. La propria morte come salvezza eterna e quella altrui come punizione.

C’è dunque una differenza non di poco conto. Il terrorista che uccide ma se ne sta nascosto non ha compiuto il passo che, invece, i giovani terroristi islamici hanno effettuato. L’evoluzione terroristica di questi ultimi avviene sulla base di qualcosa di preesistente ossia della religione familiare, magari per molto tempo disattesa ma poi riscoperta con fervore patologico, anche grazie allo stimolo onirico di Internet e all’aiuto di maestri folli ma rigorosi e persuasivi. Max Weber ci ha insegnato che principi religiosi come la predestinazione hanno in parte fatto la storia delle nostre società e delle nostre economie. Non si vede quale difficoltà vi sia per capire che questa connessione si sta ripresentando attraverso la regressione, dovuta a sua volta a circostanze storiche molto complesse, ad antichi dettami di una religione che sta rialzando la testa. Fino a quando non vedremo nelle piazze europee cortei di europei musulmani protestare coralmente, cosa di cui per ora vi sono solo alcuni modesti segni iniziali, contro le violenze dei loro radicalizzati dovremo temere il perdurare minaccioso di quel “qualcosa” su cui la radicalizzazione si esercita.

Aggiornato il 28 agosto 2017 alle ore 20:18