
Sia da Emmanuel Macron che da Marine Le Pen e, soprattutto, dai francesi alle elezioni ci è venuta quella che possiamo ben definire una lezione di stile; una lezione peraltro prevista. Ve lo dice uno che ha visto a Parigi nelle settimane scorse il divenire di una campagna non poco accesa e non poco agitata non foss’altro che da una crisi ben visibile e dalle incertezze di una destra gollista al tramonto e di una sinistra socialista in un declino inarrestabile. Eppure la Le Pen ce l’ha messa tutta, anche per una specie di alleanza che alle legislative, fra un mese, si farà certamente sentire. Ma ciò che più colpiva lo straniero “en touriste” e anche, come noi, curioso dello svolgersi elettorale era il sostanziale rispetto fra i due e l’assenza o quasi di grida, di riunioni accese o di incontri all’arma bianca.
Intendiamoci, la durezza della posta in gioco nella sfida era affatto palpabile e non di poco conto, compresa qualche urlata giovanile contro il populismo irruento e l’“entente fasciste” di Marine offerti a mani piene, ma pur con una sua contenutezza, anche se la Le Pen ha avuto toni cruenti verso il doppio pericolo Europa-Euro. Contro cui la sempre ferma e retoricamente ben impostata lingua di un Macron che, maniacalmente scientifico, nulla ha mai lasciato al caso; ha fin da subito contrapposto, senza remora alcuna, l’unità dell’una e l’indispensabilità del secondo seguendo la stessa linea di Angela Merkel. Entrambi, detto per inciso, vincenti lo stesso giorno, confermando automaticamente il famoso o famigerato asse che oltre che nelle persone è nelle cose. Senza entrare in altri meriti o demeriti squisitamente politici dei due blocchi, ciò che davvero assumeva una rilevanza per un italiano era la compostezza dello scontro da un lato e, soprattutto, la quasi assenza di un contropelo mediatico, a sua volta controllato e mai, o quasi, oltre i confini di una competizione con una posta in gioco ultranazionale.
È probabile che abbia giocato un ruolo decisivo l’assoluta centralità macroniana, il centrismo senza se e senza ma, che, tra l’altro, ha reso persino inutile la sopravvivenza di un partito che vide e produsse i trionfi mitterandiani. Sic transit. E allora, ci chiedevamo nella nostra pur breve trasferta sulla Senna, perché in Italia accade da anni l’opposto? Perché un populismo non solo gridato ma dispensato ad ogni ora sia dai Beppe Grillo e dai Matteo Salvini va per la maggiore contaminando a volte gli altri e, soprattutto, con l’ausilio di un apparato mediatico che da noi, e soltanto da noi, ricopre un ruolo di fondo nell’incanaglimento delle posizioni provocando una gara a chi è il più demagogo? Insomma, perché alla malsana politica degli effetti speciali rivolta allo stesso bersaglio, pro o contro qualsiasi cosa, non pochi organi d’informazione e troppi talk-show e canali televisivi giocano a rubamazzetto accondiscendendo quasi sempre al massacro dell’avversario, cioè gli altri? E perché, infine, la cattiva filosofia del “talkshowismo” da strapaese, a volte anche in Rai, sull’asse della nostalgia canaglia postcomunismo-Feltrinelli-Einaudi-Immigrazione ecc. fa un gioco a dir poco sleale contro il telespettatore? Si dirà: per l’audience.
Ma non è sempre così, anzi. Gli è che in questi mass-media il disprezzo della politica ha sposato lo slogan dell’anti casta facendone una prassi quotidiana che rivela non tanto o soltanto una condivisione del populismo, anche becero, nella sua versione grillina, ma le stesse ragioni che muovono i demagoghi della Polis, ovverossia l’insulto di base, il fondamento di un credo e la sua obbedienza da talk o da rete con colpi al cuore all’essenza della politica: sono tutti ladri, tutti corrotti, basta coi vitalizi, in galera! E dopo? Domandarsi se servirà a qualcosa da noi lo stile delle elezioni francesi è lecito. Dubitarne è necessario.
Aggiornato il 08 maggio 2017 alle ore 18:09