Primarie: è tutto dire, dei tre meglio Renzi

Incredibile a dirsi per noi che non abbiamo risparmiato a Matteo Renzi alcuna critica, ma fra i tre in corsa lui è di gran lunga il migliore. Li distanzia di un’enormità, in scaltrezza, intuizione, affabulazione e padronanza televisiva. Gli altri due, Michele Emiliano e Andrea Orlando, seppure con rispetto, rappresentano ancora quella linea del Piave postcomunista che sa di muffa e vecchi merletti. Il ministro e il governatore, infatti, trasudano di quella presunzione ideologica che ha condotto la sinistra comunista allo sfascio totale. Parliamo della presunzione di chi insiste nel ritenersi il migliore, di chi si appropria di ogni e qualunque merito storico e morale (lotta partigiana), di chi stimola l’invidia sociale.

Per questo Emiliano e Orlando parlano di patrimoniale, usano parole di sdegno ingiustificato verso la destra, restano attaccati a soluzioni paleocomuniste. Insomma, sono quelli per i quali la democrazia sta solo a sinistra, la libertà pure, l’onestà e la giustizia sociale anche, alla faccia dell’alternanza. Continuano a non capire che criminalizzare l’idea stessa di alternanza, l’ipotesi di un’alternativa di Governo e la possibilità che l’alterità sia altrettanto rispettabile, non funziona più.

Insomma, restano indietro mentre il mondo va avanti, si ancorano a una filosofia sconfitta dalla storia e dall’economia, considerano la produzione di ricchezza un bastione da aggredire. Su questo antistorico e perfino un po’ intellettualmente ipocrita terreno, Renzi li ha ovviamente asfaltati. L’ex premier, infatti, scaltramente, ma anche saggiamente, ha detto no alla patrimoniale, sì a un rafforzamento della legittima difesa, no a un’Europa tout court e acceso finalmente una spia sull’immigrazione incontrollata.

Renzi, insomma, sa fatto il suo, da democristiano un po’ di sinistra, da cattocomunista soft e new age, da chi volendo comandare utilizza l’antico “castigat ridendo mores”. Per questo l’ex Presidente del Consiglio ha stravinto il confronto televisivo e stravincerà le primarie, che comunque sia, essendo “aperte”, restano un non senso. Al netto di tutto ciò, per tutti e tre resta il problema di fondo di un partito, il Partito Democratico, tutt’ora in cerca di un approdo ideologicamente nuovo e sdoganato dai vecchi merletti. Perché il Pd resta intriso di assistenzialismo inutile e dannoso, di statalismo elettorale, di radical chic pensiero, che coniuga al mattino l’eskimo e alla sera aragosta e champagne. Il Pd, infatti, non è socialdemocratico, non è lib-lab, non è la terza via di Giddens, meno che mai “En marche!”, che forse è ancora più indefinito e fragile.

Del resto il livore con il quale il Pd continua a non darsi pace, che il centrodestra e la destra siano ovunque riusciti a intercettare il voto popolare, lo testimonia. Per il Pd il popolo è un’esclusiva brevettata, come altrettanto per loro sarebbe brevettato il legame con il bel mondo intellettuale, finanziario e industriale. Insomma, il partito erede di Togliatti continua, ci si passi la battuta, “a piangere il morto e a fregare il vivo”, sperando sempre che nessuno se ne accorga. Non è così, non è più così, la gente se ne è accorta eccome. Il popolo, che non è più solo quello di Mirafiori, o sessantottino, ma è cresciuto in ogni senso, li ha abbandonati in larga parte. Dunque, se Renzi vuole vincere davvero deve avere il coraggio del grande passo, verso un’identità di partito e di leadership nuova di zecca, per nulla arrogante, oracolare e onnipotente. Nei tre anni di Palazzo Chigi non c’è riuscito e gli italiani, che hanno pagato, lo sanno bene.

Aggiornato il 23 giugno 2017 alle ore 12:43