L’ultimo atterraggio dell’allegra compagnia

La storia e la fine (purtroppo ingloriosa) di Alitalia è la stessa di una lunga, anzi troppo lunga, serie di aziende cosiddette di Stato. È la storia delle partecipazioni statali, delle municipalizzate; insomma quella storia che ha visto lo Stato infilarsi dappertutto e a sproposito.

Del resto, parliamoci chiaro, una grande fetta dell’immenso debito pubblico, che prima o poi ci farà saltare come un tappo di champagne, nasce da lì. Se infatti ci mettessimo a fare la somma di quanto, decennio dopo decennio, a partire dagli anni Sessanta, siano costate alle casse pubbliche le “controllate” o “partecipate”, capiremmo tutto. Tant’è vero che da noi nemmeno il periodo delle privatizzazioni degli anni Novanta riuscì a risolvere il problema, tanto ipocrita e viziato era il concetto di politica industriale. Non va dimenticato, infatti, che solo in Italia, tra i Paesi occidentali, il più grande imprenditore è sempre stato lo Stato.

Dalle banche (guarda caso) alla meccanica ai trasporti, all’energia, alla trasformazione, ai servizi di pubblica utilità, alla manifattura. Tutto statale, direttamente o indirettamente. Di questa immensa impresa pubblica, tranne poche eccezioni, è andato tutto a ramengo con svendite, fallimenti, commissariamenti, fusioni e incorporazioni onerose e opache. Ecco perché la fine di Alitalia non nasce dai fatti recenti, ma viene da molto lontano. Quel lontano che una classe dirigente miope, opportunista e avida non ha mai corretto per paura, per interesse, per mancanza del senso dello Stato.

Insomma, in Italia la politica industriale ha seguito la logica dell’assistenza, del consenso elettorale, degli amici da favorire e delle poltrone da distribuire con stipendi da sceicco. Ecco perché ci ritroviamo il sistema bancario che ci ritroviamo, le municipalizzate colabrodo e, infine, aziende più o meno pubbliche o ex pubbliche in disfacimento. Per farla breve, da noi non solo lo Stato è entrato troppo e ovunque, ma vi è entrato non con la logica dello sviluppo, del profitto e del mercato, ma con quella del vizio e del “paga Pantalone”.

Basterebbe ripartire dalle famose Bin (banche d’interesse nazionale) per capire molto di quello che si vive oggi, così come dalle partecipazioni statali per ricostruire la genesi di un disastro industriale, politico ed economico. Per non parlare ovviamente dei cosiddetti salvataggi, rifinanziamenti, ricapitalizzazioni e riconversioni di un’infinità di gruppi aziendali che sono costati uno sproposito a perdere.

Per questo la fine di Alitalia dispiace ma non sorprende, rammarica ma non colpisce. Dentro questa fine c’è la sintesi di tutti gli sbagli della politica, del sindacato, del management di Stato, che hanno portato in decenni l’albero del Paese a piegarsi così drammaticamente. Qualche giorno fa, in un articolo rivolto al ministro Carlo Calenda, offrivamo a proposito qualche modesto e spicciolo spunto di riflessione. Con tutto il rispetto, rileggerlo potrebbe servire.

Aggiornato il 23 giugno 2017 alle ore 12:51