Ha ragione Carlo Nordio quando parla di defunta civiltà giuridica del nostro Paese. Su “Il Messaggero” dell’altro giorno, il magistrato, capace di un’eleganza culturale e finezza giuridica di rara qualità, partendo dal caso Consip conclude con le esequie della civiltà giuridica.

Siamo insomma di fronte all’estenuante e ricorrente problema delle intercettazioni, del loro utilizzo, ma più in generale del cortocircuito fra politica e magistratura. Ovviamente noi, come tutti del resto, nel caso di Tiziano Renzi non sappiamo come sia potuto accadere che una trascrizione sia stata “falsificata”, ma il risultato non può essere che un aumento dell’inquietudine. Del resto, cosa potrebbe pensare il comune cittadino di fronte all’ipotesi che uno sbaglio del genere possa essere in grado di sconvolgergli la vita? Perché, sia chiaro, il problema sta tutto lì. Un errore, talvolta minimo, nel corso delle indagini preliminari, può determinare eventi drammatici e catastrofici nella vita di chiunque. Qui non si tratta di volersi attaccare al caso limite, ma a una ricorrente serie di gravi svarioni giudiziari che hanno segnato la storia dei nostri ultimi venticinque anni. Da Tangentopoli in poi, infatti, il fiorire di clamorose indagini finite nel nulla, ma che hanno sconvolto la politica e rovinato parecchie esistenze, non si contano.

Dunque il problema non è solo quello della regolamentazione delle intercettazioni, ma della responsabilità dei magistrati, della cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale, della separazione delle carriere. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la questione non è limitata ai casi eclatanti per il calibro dei coinvolti, ma riguarda tutti i cittadini. Eppure, nonostante la marea di errori giudiziari, d’indagini clamorosamente sconfessate e di sentenze ribaltate totalmente in appello o Cassazione, il problema resta irrisolto.

Parliamo del problema di una riforma seria, profonda e articolata della giustizia. Perché sia chiaro, il vero cortocircuito fra politica e magistratura nasce sul fatto incomprensibile del come mai nessun Governo abbia avuto la forza di farla davvero. Sul tema, nonostante gli annunci, tutti hanno finito con il limitarsi a interventi parziali, modesti, talvolta inutili e ininfluenti. Perché?

E qui nasce il secondo ma non meno importante problema, che essendo irrisolto lascia nel dubbio e nell’inquietudine tutti i cittadini italiani. Perché delle due l’una, o la politica ha così tanta paura della magistratura da esserne succube, o la magistratura, passo dopo passo, ha acquisito un potere diretto o indiretto diverso da quello che la Costituzione le assegna. Non si tratta di fiducia nei giudici, sappiamo bene quanto sia vasta la platea di magistrati esemplari, coraggiosi e preparati. Sappiamo altrettanto bene quanto la stragrande parte dei magistrati operino al di là delle loro forze, con una capacità eroica rispetto alla scarsità dei mezzi a disposizione. Insomma, non è in discussione il livello generale dello spessore e della dirittura dei rappresentanti del potere giudiziario, è invece in discussione il problema della riforma dell’ordinamento della giustizia. Del resto non può sfuggire quanto la giustizia sia decisiva nella vita economica, sociale e costituzionalmente rappresentativa del Paese. Ecco perché la politica al di là di battersi la testa sul perché e sul per come di certi episodi, di certi errori, di certi malfunzionamenti e di certi vizi del mondo della giustizia, dovrebbe operare per riformarla davvero. Solo così, solo con una riforma grande e moderna in tutti i sensi potrà risolversi il dilemma, il cosiddetto cortocircuito e quello del fondamentale check and balance fra i poteri.

Altrimenti, come giustamente dice Carlo Nordio, continueremo a celebrare esequie ma nel lungo periodo, a torto o a ragione, saremo tutti morti.

Aggiornato il 02 maggio 2017 alle ore 22:37