
Parlare oggi di disoccupazione, di giovani, di ricollocamento e quant’altro, significa scandagliare le dinamiche che hanno generato le paradossali forme di sopravvivenza umana nel nostro Paese (l’esistenza alla ragionier Ugo Fantozzi inizia ad essere invidiata).
Da circa un decennio gli imprenditori più “svegli” continuano a ripeterci che non c’è più l’opportunità di remunerare il lavoro in Italia, che gli italiani dovrebbero lavorare gratis per almeno 15 anni perché si possa rilanciare impresa e occupazione. Parallelamente, gli stessi imprenditori si fanno paladini del “made in Italy” nell’intero pianeta: salvo poi produrre merci in Paesi del Quarto Mondo che permettono lo sfruttamento schiavistico della manodopera, quindi far transitare le produzioni manifatturiere dall’Italia solo per appiccicarci l’etichetta “made in Italy”. Tutta roba cinese, indiana e indocinese che invade il mondo dopo un breve passaggio dal Belpaese. Tutto possibile grazie alla globalizzazione, alle ricette di politica doganale inventate negli anni Novanta. Oggi ci accorgiamo che quelle scelte sono solo servite ad abbassare la qualità della vita in Italia (anzi, in tutta Europa). Soprattutto che le garanzie per chi lavora sono tornate ai livelli di fine Ottocento, e con buona pace di certi sociologi che invitano a “lavorare gratis se si è giovani occidentali”, ma soprattutto ad “accettare di buon grado l’esclusione sociale se non si vuole rischiare la deriva terroristica”.
Da venti a sessant’anni si fatica ad integrarsi nel mercato del lavoro, perché la politica ha partorito norme che favoriscono lo sfruttamento dei non garantiti. Anche l’ultima disamina dell’Istat fa dietrofront, ammettendo che il tasso di disoccupazione giovanile continua a crescere in Italia, e che chi perde un lavoro dopo i 35 anni è già non più reinseribile.
Lo scenario italiano non ce lo stiamo inventando noi, lo raccontano anche Lara Maestripieri (ricercatrice di “Spazio Lavoro”) e Roberto Rizza (sociologo dell’Università di Bologna) nel volume “Giovani al lavoro: i numeri della crisi”. Una penalizzazione che si concretizza principalmente nel livello di disoccupazione e inattività più alto d’Europa, e soprattutto che la maggiore competenza non è più a vantaggio dei percorsi professionali. Ricordate la storia dell’ingegnere nucleare che vent’anni fa lavorava in un McDonald’s di Torino? Oggi la Rete ci ha rivelato che s’accontenta di fare il pony express e, di tanto in tanto, di arrotondare dando lezioni private di matematica. Questo è il sistema paese su cui ha messo la firma il ministro Giuliano Poletti: l’uomo delle coop che ha solo assicurato un alto reddito al proprio figliolo come ai protetti dai suoi amici.
Addirittura gli studiosi di tutta Europa osservano l’Italia per raccontare il fenomeno dei “Neet” (categoria comparsa nelle statistiche Eurostat e che significa “Not in Employment, Education or Training”): uomini e donne che non lavorano né studiano, perché è stato detto loro che sono ormai fuori dal “sistema sociale”. Sorge il dubbio che questi studi europei servano per dimostrare che gli italiani sono un popolo di nullafacenti che vive alle spalle dell’Unione europea.
Insomma, utili ad avvalorare le teorie del plenipotenziario Ue Jeroen Dijsselbloem, che ha sostenuto d’aver scoperto attraverso Facebook come gli italiani non pensino ad altro che “a divertirsi con donne e feste”. Ma oggi quanti italiani conoscete che se la spassano? Sorge il dubbio che si mettano in piedi queste leggende metropolitane per bloccare ulteriormente la crescita del Paese e, soprattutto, per legarlo ancor più con normative europee stringenti (roba da strozzini professionali). E la politica tutta, in buona compagnia del governo, evita di rispondere. Dando a bere che l’italiano medio avrebbe la coda di paglia, che sarebbe un disoccupato gozzovigliante. Certo, il mercato del lavoro è inasprito dalle disuguaglianze intergenerazionali e l’esclusione sociale entra come i cavoli a merenda in tutti i dibattiti, ma l’agenda politica del Paese è impegnata su altri fronti. A pochi dirigenti italiani (forse a nessuno) interessa che tra un decennio l’80 per cento della popolazione potrebbe gravitare nell’esclusione sociale, soprattutto che gli eserciti servirebbero solo per difendere il potere dai derelitti, dagli indigenti. Fantascienza? Fino a un decennio fa si raccontava ai giovani che l’ingresso nel mondo lavoro (e nell’Era post-industriale) andava inquadrato nell’ottica di una preminenza del lavoro intellettuale, come destino ineluttabile dell’economia moderna. Oggi nessun politico sembra abbia sufficienti parole (o coraggio) per ammettere che il 60 per cento della popolazione non è più inseribile lavorativamente.
Sembra non regga più nemmeno la storia dell’investimento congiunto in politiche educative e industriali, per generare da un lato risorse formate in modo adeguato e dall’altro domanda di lavoro altamente qualificato. Lo Stato ha persino abdicato al proprio ruolo nell’investimento sociale, reputando giusto tagliare orizzontalmente risorse dalla cultura alla formazione: la ricetta “meno laureati, più lavoro per tutti” ci porterà a una società sul modello della periferia indiana con tanti poveri disposti a lavorare per poco o nulla. In questa direzione vanno tutte le leggi nazionali che recepiscono la “sharing economy” (lavoro in affitto), tanto caldeggiata dall’Unione europea: in pratica vogliono trasformare tutta la forza lavoro in milioni di sciuscià, che come in una pellicola in bianco e nero sortiscono dai tuguri pregando di lavoricchiare un po’ qua e un po’ là.
In questa direzione vanno anche le proposte del Movimento Cinque Stelle, che ha plaudito le proposte del sociologo Domenico De Masi, il teorizzatore del “Lavorare gratis, lavorare tutti: il futuro è dei disoccupati”. “Ad oggi il Movimento Cinque Stelle sembra il più adatto per un progetto di questo tipo. Che potrebbe anche avere ricadute importanti in termini di voti, visto che in Italia ci sono 3,1 milioni di disoccupati - ha dichiarato De Masi - Bisogna redistribuire il lavoro che già esiste. È inutile pretendere il lavoro per i disoccupati se gli occupati fanno gli straordinari, sono sempre disponibili, anche nel week-end, e si fermano in ufficio ogni giorno oltre l’orario di lavoro senza essere per questo retribuiti. Bisogna redistribuire il lavoro, riducendo gli orari. Passando magari dalle 40 alle 36 ore settimanali. In questo modo non avremmo disoccupati. Ma è difficile da applicare: oggi chi ha il lavoro non lo vuole certo mollare”.
De Masi, certo dell’appoggio dei grillini, pensa a leggi che decurtino il lavoro pagato a chi lo ha per contratto, per poi appaltarlo gratis ai disoccupati. Siamo caduti dalla padella nella brace: l’Italia governata da Beppe Grillo potrebbe essere un Paese fatto di buoni pasto e buoni vestiario, dove solo poca gente metterebbe in bella mostra il proprio capo “made in Italy”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:46