La sinistra dal lato dell’offerta

Qualche giorno fa (martedì 21 marzo), su “il Manifesto”, la direttrice Norma Rangeri sottolineava positivamente la “vivacità” che si vede a sinistra del Partito Democratico. Tra scissioni, riassemblamenti e nuove proposte, il campo della sinistra-sinistra sembra percorso dal solito, storico e già visto continuo movimento di parti, che si fanno sempre più piccole e sperano di cambiare il mondo. Nobile, ovviamente, e ognuno con le proprie buone intenzioni. Da verificare invece l’efficacia delle varie operazioni. Perché trovare le famose “ragioni che uniscono” rispetto a quelle che dividono è sempre stata operazione difficile, quanto malriuscita. La quale ha dato qualche soddisfazione se indirizzata “contro” qualcuno; ieri Silvio Berlusconi, oggi Matteo Renzi.

Acceleratore “molecolare” del movimento, con buona probabilità, è stato il ritorno del proporzionale. Il quale, storicamente, se moltiplica i soggetti, allo stesso modo ne aumenta il “peso specifico”. Abbiamo visto come Sinistra Italiana sia nata già piuttosto “monca”. Molti ex Sel (Sinistra Ecologia Libertà) hanno preferito altre strade, e il numero degli iscritti è decisamente minore rispetto a quello dei blocchi di partenza dei rispettivi soggetti fondatori. Il “Campo Progressista” di Giuliano Pisapia è ancora “under construction” e si attendono gli sviluppi del progetto di una persona che, dalla sua, può vantare uno storico garantismo; per certi versi controcorrente rispetto a molta parte della sinistra. Infine, la nuova creatura del tandem Massimo D’Alema-Pier Luigi Bersani. I quali fanno da padri nobili ai vari Roberto Speranza e Nico Stumpo. Le cui fila sono ingrossate dalla truppa ex Sinistra Italiana capeggiata da Arturo Scotto, che non ha seguito il padre nobile, Nichi Vendola. E con Enrico Rossi che vuole trovare casa alla sua “Rivoluzione Socialista”. Salta subito all’occhio il fatto che, ancora una volta e come sempre, manca nella denominazione del (per ora) movimento qualsiasi riferimento alle parole “socialismo” o “socialdemocrazia”. Il nome scelto è l’ecumenico “Movimento dei Democratici e dei Progressisti”. Per carità, il campo di appartenenza è ben identificato, ma rimane quella sorta di “scissione” secondo la quale gli ex comunisti hanno piacere ad essere chiamati “socialisti” in Europa, ma non in Italia. Forse penseranno che il termine “socialista” è una vecchia chincaglieria del Novecento, la quale potrebbe evocare mondi scomparsi e difficilmente riproducibili. Però, a quanto pare, negli altri Paesi della Vecchia Europa non la pensano così. E il loro nome storico se lo tengono, non ritenendolo un orpello inutile.

I primi sondaggi non sono entusiasmanti per la nuova creatura tenuta a battesimo nell’ex mattatoio di Roma, in quel di Testaccio. E parlano di una consistenza elettorale del 2 per cento, ponderatamente inferiore all’attuale forza parlamentare del gruppo. Il quale, tra Camera e Senato, può contare su un numero di rappresentanti poco inferiore alle cinquanta unità. Pare che la “diaspora”, per ora, non abbia avuto nel Partito Democratico effetti di grossa destabilizzazione. Smottamenti all’orizzonte non se ne vedono. Pur rimanendo importante ogni punto percentuale per la corsa al governo del Paese. Forse, molti militanti di base non hanno capito fino in fondo la scelta dei transfughi. Soprattutto in un momento in cui Matteo Renzi presenta evidenti debolezze politiche, che neanche la sua esuberanza può camuffare più di tanto. I conti pubblici non in ordine rispetto ai parametri Ue; una crescita economica bassa e, comunque, insufficiente a portare l’Italia fuori dalle secche; un referendum costituzionale perso senza appello, e probabilmente condotto pessimamente; una legge elettorale (semi) bocciata dalla Consulta, la quale si è ripetuta anche sulla Legge Madia; il guazzabuglio della “Buona Scuola”; il Jobs Act che, pare, finiti gli incentivi, non sia stato affatto incisivo sul problema sia della disoccupazione che del rilancio economico.

Dopo tre anni di governo, non è un risultato particolarmente esaltante. Visto il quale, la minoranza Dem poteva incardinare una dura lotta congressuale; preferire la scissione porta con sé un rischio forte: quello dell’irrilevanza politica e della disunione di un fronte che potrebbe risultare alla fine perdente, proprio perché viaggiava in “ordine sparso”. Il manifesto fondativo del movimento presenta i “canoni” della sinistra, potremo dire, classica: riferimento forte all’articolo 1 della nostra Costituzione; il lavoro stabile e remunerato il giusto per una vita dignitosa; la bussola dell’uguaglianza per orientarsi nella politica; la volontà di una maggiore integrazione europea con annesso piano per ridurre le disuguaglianze sociali. Senza tralasciare un riferimento al mondo sindacale. E la citazione di Papa Francesco, che non guasta mai. Questo per quanto riguarda il “per”. Ma non manca un interessante passaggio “contro”, quando il movimento “si propone di ricostruire un centrosinistra plurale, non soffocato da ambizioni leaderistiche e da pretese di arrogante autosufficienza...”.

È ovvio che in queste parole sia scolpito il riferimento a Matteo Renzi e al suo modo di intendere la politica. Ma è leggibile anche una critica a qualcosa di molto meno recente. A un modello, che sarebbe dovuto nascere dal discorso pronunciato da Walter Veltroni al Lingotto di Torino nel 2007. Da lì si fa partire l’esperienza del Partito Democratico a “vocazione maggioritaria”, che voleva azzerare tutte le precedenti esperienze “plurali”, buone per le vittorie ma non altrettanto per un governo stabile. Sono due modelli a confronto. Di certo grandemente influenzati dalle leggi elettorali. E ora c’è il proporzionale.

Aggiornato il 07 aprile 2017 alle ore 18:10