Nessuno è perfetto (soprattutto le élite)

Nell’anno passato i popoli “occidentali” hanno dato tanto dispiacere alle loro “élite”: dalla Brexit all’elezione di Donald Trump, non hanno fatto altro che decidere il contrario di quello che desiderava l’establishment, nazionale ed internazionale.

Già da prima, ma ancor più oggi, politici e finanzieri, alti burocrati e cineasti, accademici e scrittori di cassetta, ripetono che il popolo può sbagliare e che lo fa quando non segue i loro consigli; onde – in conclusione – è necessario, per il di esso bene, tenerne in non cale aspirazioni e decisioni. All’uopo i più acculturati rispolverano quanto più lontano dalle loro convinzioni, come quei classici del pensiero liberale che non mancavano di contrastare o ridimensionare il pensiero democratico (e giacobino): da Constant a Tocqueville, da Montesquieu a Berlin.

Così abbiamo letto un insegnante universitario, posto a suo tempo alla guida del governo, affermare che “David Cameron ha compiuto un abuso di democrazia (...) Nessun Parlamento è in grado di decidere per il bene del proprio Paese su questioni che richiedono la cooperazione. Su questo ci sono anche dei miti”. Uno scrittore di cassetta rileva come il popolo sbaglia: “... me lo ricordo il popolo, nel 1938, acclamare Hitler e Mussolini a Roma affacciati insieme al balcone di Piazza Venezia (...) A ben vedere, siamo sicuri che oggi il popolo abbia vinto davvero?”. Un ex Presidente della Repubblica, più rispettoso, ha affermato che la democrazia “è il popolo che si esprime anche affidando ai rappresentanti le scelte e le decisioni (...) I referendum sono strumenti e nella nostra Costituzione non possono essere convocati sui Trattati internazionali, perché temi così complessi non possono essere affidati ad un voto superficiale e impulsivo”.

La musica è parzialmente cambiata all’ultimo convegno del World Economic Forum a Davos. Già dal titolo del dibattito sulla classe media, “Spremuti ed arrabbiati”, come da alcuni passi degli interventi di Pier Carlo Padoan e di Christine Lagarde, è evidente il tentativo di capire perché i popoli stanno rifiutando le classi dirigenti che li hanno governati (almeno) nell’ultimo ventennio. E passare dall’anatema all’analisi è già un progresso sulla via della comprensione dell’altro. A leggere la stampa, Padoan ha affermato che la classe media “esprime la delusione dicendo no a qualsiasi cosa i leader politici suggeriscano (...) I ‘no’ dominano lo scenario politico e questo è un segnale di crisi”; e poi ha lasciato socchiusa la porta. “I populisti sollevano talvolta problemi giusti, ma non danno le risposte”. Ma subito dopo è diventato preoccupante: i politici “devono avere il coraggio di prendere decisioni a volte anche dolorose” (ahimè non bastavano quelle – tanto dolorose quanto inutili – prese dal Governo Monti?); per tornare poi sul preoccupato: “Se l’atteggiamento populista si afferma, non possiamo più governare una società democratica. Questo mi preoccupa”.

Quanto alla Lagarde, spiega il furore dei ceti medi (e la terapia idonea a lenirlo) segnalando che “probabilmente ci vuole una maggiore ridistribuzione dei redditi di quanta ne abbiamo oggi”. Opinioni che, nella loro genericità, hanno quanto meno il pregio di registrare il problema, se non le possibili soluzioni. Quel che più rileva è, tuttavia, notare che le altre posizioni esorcizzanti presentano dei limiti e delle mende grossolani.

Il primo dei quali è l’affermazione che il popolo può sbagliare: è affetto da una ovvietà (e da una parzialità) evidente. Che il popolo possa sbagliare è banale, perché nessuno è infallibile: come errano i governanti, così i governati. Perché gli esseri umani non sono perfetti: possono prendere decisioni sbagliate sia per difetto di comprensione che – ancor più – per orientamento della volontà. Parziale è la conclusione tratta da chi la condivide: che le decisioni pubbliche devono essere prese da caste di illuminati: dottrinari, tecnici (oggi soprattutto), illuminati (da Dio, per lo più in altri tempi): tutta gente di cui si deve dimostrare l’infallibilità. La storia dimostra che più le classi dirigenti si credono infallibili (ispirate, illuminate) e più combinano disastri.

Ma c’è un secondo elemento di pari rilievo: che il politico si fonda sul presupposto del comando-obbedienza. E il comando è tanto più efficace, quanto più è obbedito (spontaneamente). Questa relazione è stata declinata in molti modi (e aspetti): idem sentire de re publica, legittimità, consenso. In genere se il popolo è convinto che la classe dirigente condivida gli stessi valori, abbia i medesimi interessi, lavori per gli identici fini, la coesione sociale è solida e stabile.

Un regime d’occupazione militare, in cui chi governa (l’autorità militare di una potenza straniera) non ha né il titolo per governare (è tiranno absque titulo) né ha il dovere di farlo per gli interessi dei governati (ma legalmente il regime d’occupazione militare è “regolato”) è l’esempio di consenso prossimo allo zero. All’inverso, specie nell’epoca storica contemporanea, dominata dal principio democratico di legittimità, il governare col consenso del popolo rende assai più facile il compito.

Sotto tale profilo, le stesse procedure democratiche di integrazione come le elezioni e i referendum sono meno dei sistemi per far decidere il popolo (cioè al di esso rappresentante immediato, il corpo elettorale) che per garantirsi che l’azione dei governanti sia condivisa dai governati e che quelli ne abbiano il consenso, che è la base, essenziale ma non esclusiva, della potenza (degli Stati). Questa, come scriveva Max Weber, è la “possibilità di far valere, entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di tale possibilità”.

Mentre le classi dirigenti che smarriscono un contatto con la “base” non solo perdono potenza ed efficacia, ma al limite, (e alla conclusione di questo processo) finiscono per trovarsi senza nessuno da governare. Per lo più perché costrette dai governati a scappare; nell’altra, meno frequente, capita che scappino i governati. Come successo al tramonto dell’impero romano d’occidente, ovvero come si avviò in Europa orientale subito prima del crollo del comunismo.

I governanti privi di consenso devono rassegnarsi ad una potenza dimidiata, a una vocazione-quisling, dato che non potendosi sorreggere sulla volontà popolare devono esserlo da quella di altri. Quindi anche se il popolo sbaglia, anche se è bue, è il consenso dello stesso a costituire un elemento indefettibile sia della possibilità di governare che di far valere la propria potenza dell’insieme. Ed è quello che certe élite in decadenza dimenticano. Ma pare non l’hanno solo dimenticata: la esorcizzano perché la temono. Anche se non sembra abbiano letto Montesquieu (che sicuramente non hanno capito), del pensatore francese ricordano quanto scriveva del popolo: che ha centomila piedi (anche se spesso è immobile). E, così, se si sveglia, può servirsene per prenderli a pedate.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45