La Cgil e il referendum sui licenziamenti: indietro tutta

Con ordinanza del 9 dicembre scorso l’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha dato il via libera a tre quesiti referendari depositati dalla Cgil la scorsa estate relativi alla “Abrogazione disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”, alla cancellazione dei voucher e alla reintroduzione della responsabilità solidale piena negli appalti.

La Corte costituzionale dovrà pronunciarsi l’11 gennaio 2017, ma l’approvazione è scontata. Dopodiché, a meno che nel frattempo non vengano sciolte le Camere, il popolo italiano sarà chiamato alle urne tra la metà di aprile e la metà di giugno del prossimo anno per l’ennesimo referendum. E, considerando l’aria che tira, non è azzardato attendersi un’altra affermazione delle posizioni “anti sistema” che colpirebbe al cuore il Jobs Act, cancellando il contratto a tutele crescenti, e rimetterebbe le lancette dell’orologio indietro agli anni Settanta.

Quella che viene posta sul percorso delle riforme è dunque una mina molto pericolosa. Il quesito referendario sui licenziamenti è infatti formulato in modo articolato. Proporre l’abrogazione “selettiva” di singole parole o di interi periodi del “mitico” articolo 18 dello Statuto dei lavoratori significa riportare sostanzialmente in vita il testo originario del 1970. Il totem viene ripristinato. Il problema è che si tratta di una norma che in sede applicativa ha mostrato gravi storture, riconosciute persino dal padre dello Statuto dei lavoratori, Gino Giugni; storture che solo al termine di un lungo e faticoso percorso la Legge Fornero era riuscita a correggere.

L’articolo 18, in caso di vittoria del sì, potrebbe così tornare a punire con la reintegrazione e con un risarcimento del danno potenzialmente ingentissimo qualsiasi tipo di licenziamento illegittimo. Dunque non solo il licenziamento discriminatorio, nullo, o gravemente viziato, ma anche quello pienamente giustificato (ad esempio quello del dipendente che in malattia viene scoperto a giocare a calcetto, che offende e aggredisce il superiore, che danneggia gli strumenti, e così via) che presenta però un vizio di forma, come un ritardo di qualche giorno nella spedizione di una raccomandata. E la norma riacquisirebbe anche la caratteristica di “tassametro”, prevedendo un risarcimento che cresce col passare del tempo e che può portare, casomai in Cassazione, dopo tre gradi di giudizio e numerosi anni, ad esborsi astronomici per il datore di lavoro.

Ma l’attuale attacco della Cgil si spinge ancora più in là. La modifica referendaria prevede infatti anche l’estensione del campo di applicazione della norma protettiva: oggi applicabile alle imprese con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune o con più di 60 in totale, l’articolo 18 verrebbe esteso anche alle imprese di piccolissime dimensioni, ossia a quelle con più di 5 dipendenti nel complesso. Si tratterebbe di un esito in aperta distonia con le regole dell’Unione europea dove, per valutare la reale dimensione di un’impresa, si considerano congiuntamente il numero di occupati e il fatturato o il bilancio, e dove quelle che occupano fino a 10 dipendenti sono considerate microimprese (piccole quelle fino a 50 dipendenti, medie quelle fino a 250 e grandi le altre). Ma, soprattutto, la proposta denota una totale indifferenza per l’impatto che l’applicazione di un regime tanto severo potrebbe avere su realtà piccolissime, non dotate di uffici del personale, e dunque più facilmente soggette ad errori formali, e per le quali una condanna ad un risarcimento esorbitante potrebbe rappresentare una sentenza di morte.

È vero. Forse con il Jobs Act e le tutele crescenti ci si è spinti troppo in là, privando i neo assunti di una reale protezione contro i licenziamenti illegittimi, ma la reazione proposta è esorbitante, rancorosa e nasconde un retrogusto di vendetta. Quello dei licenziamenti è un tema delicato, per la complessità tecnica e per le ricadute pratiche. Un tema da maneggiare con cura. E il referendum è lo strumento meno adatto. Meglio farebbe la politica a riappropriarsi del proprio ruolo, casomai riaprendo con le parti sociali un dialogo che, forse, sui licenziamenti è stato chiuso un po’ troppo frettolosamente.

(*) Professore di Diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:04