Il “Margheritino”

C’era una volta la Margherita. Non quella del “m’ama-non-m’ama”, ma qualcosa di simile, contraddistinta al suo interno da fazioni antitetiche e divisive, creatrici e poi assassine dell’Ulivo di Romano Prodi, arrivate a fondersi a fine corsa nell’attuale Pd dell’antiberlusconismo militante. Se non ci avete capito nulla, non preoccupatevi più di tanto, perché questa è da sempre la sostanza del bizantinismo della politica italiana, metà centauro e metà piovra: sicché occorre molto di più badare alla sua parte posteriore in cui spuntano i tentacoli affilati dei compagni-coltelli, sempre pronti a colpire i propri sodali nell’ombra delle sacrestie del potere.

Paolo Gentiloni, il nuovo Presidente del Consiglio incaricato, sostituto temporaneo di Matteo “il Vincibile”, è un “margheritino” della prima ora, socio fondatore e azionista assieme a Francesco Rutelli della formazione “Democrazia è Libertà - La Margherita”. Ma Gentiloni nasce politicamente nell’ultrasinistra extraparlamentare che una volta guidava la protesta proletaria nelle piazze e che, oggi, si acconcia nei salotti bene delle banche e del potere mediatico. Lui, come Sergio Mattarella, rappresentano quel potere politico felpato di democristiana memoria, contraddistinto dal movimentismo di matrice gattopardesca di sempre: cambiare tutto, per non cambiare nulla.

L’uomo è di quelli che sanno dire sempre parole buone, sapendo nascondere l’ira funesta dietro l’offertorio dell’ostia consacrata, fiduciosi che saranno sempre loro a eseguire la giusta vendetta di Dio contro nemici infidi e crudeli. Attenzione, quindi, a non dire mai che il suo “puparo” è il Matteo recentemente caduto dall’Olimpo. Vero, però, che il Premier uscente ha urticato per bene le prerogative del Quirinale, procedendo - pur sotto sfratto - nella sua reggia dorata di Largo Chigi a consultazioni parallele per tessere le trame del dopo-Renzi. Difficilmente, infatti, avrebbe potuto fare la stessa cosa a via del Nazareno, stando comodamente (si fa per dire) seduto nella sua poltrona di segretario del Partito Democratico, nel timore di rimanere vittima di agguati e fughe di notizie di ogni genere, a causa delle microspie collocate persino nei decori natalizi. Va detto, a suo merito, di aver imbracato alla perfezione Movimento 5 Stelle e Lega sul seggiolino eiettabile del Governo di larghe intese, partito senza paracadute e, quindi, destinato a schiantarsi sulla terraferma, non appena i due si fossero sistemati nella cabina di pilotaggio.

Ma, siccome di furbi non ce n’è uno solo, il 60 per cento che ha vinto il referendum si è sfilato tempestivamente dall’ennesima mossa truffaldina, lasciando che Renzi e il suo Pd, con l’aiuto dei sodali Denis Verdini e Angelino Alfano, se la vedessero con un’opinione pubblica sempre più inferocita, essendosi vista negare le urne per la quarta volta di seguito. Quando finalmente sarà imbastita (con comodo) la tavola elettorale, vedrete che a guadagnare ulteriore terreno saranno Beppe Grillo e i suoi temerari avanguardisti.

Perché l’Unione europea, nel frattempo, qualora non sia implosa a causa delle sue folli politiche sull’immigrazione, avrà provveduto a infliggere - attraverso la sua diabolica Commissione - ulteriori limiti di bilancio ad una Italia sofferente e depressa economicamente, costretta a svenarsi per salvare banche fallite che la sinistra non può perdere se non vuole ritrovarsi senza finanziatori. Poteva Mattarella mandarci alle urne? No che non poteva. Lo dico da almeno due anni. Non si può andare a nuove elezioni con due norme elettorali l’una agli antipodi dell’altra: maggioritario (abbondante) per la Camera e proporzionale per il Senato.

Di chi la colpa, dunque? Esclusivamente dell’attuale maggioranza Pd-centristi. Sono stati loro, infatti, a voler mettere il carro dinnanzi ai buoi, approvando (con voto di fiducia! Cose mai viste, visto che si stava parlando delle più fondamentali regole del gioco democratico!) l’Italicum prima ancora di avere ricevuto la conferma, da parte dell’elettorato, della riforma costituzionale Renzi-Boschi che aboliva il bicameralismo perfetto, instaurando il Senato degli eletti locali. Poi c’è il Convitato di Pietra: quella Corte costituzionale che è divenuta l’arbitro supremo dei destini nazionali, grazie all’assoluta insipienza e incapacità delle attuali classi politiche. Domanda: da quando il Parlamento necessita della sentenza di un organismo giurisdizionale (seppur il più elevato) per fare nuove leggi? Ci stiamo prendendo in giro? Basta un semplice accordo tra i vincitori del 4 dicembre per varare (con la complicità della sinistra Pd!) in una sola settimana una nuova legge elettorale, anticipando e rendendo in tal modo superflua la decisione della Corte! O c’è dell’altro? Per esempio, le interminabili liti nel centrodestra per la successione a Silvio Berlusconi?

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 16:56