Riforma: l’intervento   politico del Governo

Il procedimento di revisione costituzionale, proprio perché teso a introdurre le regole dell’assetto istituzionale, in cui tutti (maggioranza e opposizione) dovrebbero auspicabilmente riconoscersi, non contempla mai l’intervento del Governo, essendo calibrato, invece, sul virtuoso bilanciamento fra il principio della democrazia rappresentativa, espresso dalle Camere, e il principio della democrazia diretta, espresso dall’eventuale referendum popolare sulla revisione.

È pertanto singolare, per non dire inaudito, l’interventismo accentuato del Presidente del Consiglio e dei ministri (con la compiacenza dei media, storicamente causa della mancanza di una formazione indipendente dell’opinione pubblica) nella campagna referendaria in corso, con un attivismo che svilisce la posizione costituzionale, il ruolo e la funzione del Governo.

Detto intervento condizionante si era già espresso in sede parlamentare, con questioni di fiducia sull’approvazione della legge costituzionale, conferendo alla stessa una caratura eminentemente politica, che appunto caratterizza il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Il tutto con previsione di scenari apocalittici, anche finanziari, che non solo non hanno nulla a che vedere con la riforma costituzionale, ma prima ancora contrastano con la logica e il buon senso.

Né il Governo Prodi, in occasione del referendum del 2006 (sulla Parte II della Costituzione, che avrebbe introdotto i cosiddetti “premierato” e “devolution”) né il Governo Berlusconi, in quello prima del 2001 (sul Titolo V relativo alle autonomie regionali e locali), assunsero un atteggiamento siffatto, mantenendo invece una posizione di prudente attesa del responso popolare, evitando un coinvolgimento politico spiccato e diffuso, come invece sta avvenendo per l’attuale Governo. Quest’ultimo, quale organo costituzionale unitario ed espressivo di una volontà unitaria (quindi organo di tutti) non può (e non dovrebbe) prendere parte, in alcun modo, alla campagna referendaria e, tanto meno, quando essa, come quella in corso, assuma connotati politici, per lor natura divisivi. Se vi interviene, come vi sta intervenendo attraverso il Presidente del Consiglio e i ministri, il Governo assume un comportamento contrario alla sua stessa natura di organo costituzionale e il Presidente della Repubblica, nell’esercizio della sua funzione di garanzia, deve richiamarlo al rispetto del suo ruolo istituzionale, per ripristinare la stessa natura dell’organo. La Costituzione prevede, infatti, che il capo dello Stato, il quale rappresenta l’unità nazionale, sia garante del corretto funzionamento dei poteri dello Stato e dei loro limiti.

Il sindacato presidenziale avrebbe dovuto anche svolgersi in sede di indizione del referendum su un quesito, che evidenzia l’illegittimità costituzionale della riforma, riguardando essa ben 47 articoli della Carta fondamentale e coinvolgendo, in varia misura, cinque dei sei titoli della II Parte dedicata all’ordinamento della Repubblica (solo il Titolo IV inerente alla magistratura rimane tale e quale, come se il Consiglio superiore della magistratura non avesse dato adito, in questi anni, a molti problemi e perplessità).

Infatti, l’articolo 138 della Costituzione non prevede una “riforma” così ampia e diversificata, ma la “revisione”, ossia la modifica di disposizioni puntuali e omogenee e, tutt’al più, di un titolo a matrice unitaria, come avvenne nel 2001, per la revisione del Titolo V. In tal modo, si evita che l’elettore, ma ancor prima le Camere, esprimano un voto non libero ma frutto di un bilanciamento di volontà, poiché alcune modifiche potrebbero essere condivise (ad esempio, l’abolizione del Cnel e i limiti alla decretazione d’urgenza) ed altre contestate (ad esempio, Senato non eletto dal popolo, in violazione del principio della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa e rapporto Stato-Regioni ed enti locali, in violazione del principio autonomistico).

La necessità di un giudizio di prevalenza non è compatibile con la libertà del voto, che costituisce una garanzia indisponibile di espressione della volontà parlamentare e popolare. Tale libertà il capo dello Stato avrebbe dovuto garantire, sempre nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali, rifiutando l’indizione del referendum su una riforma che contrasta non solo con i principi fondamentali della Costituzione, che una consolidata giurisprudenza costituzionale, fin dalla sentenza della Corte n. 1146 del 1988, ha dichiarato insuscettibili di qualsiasi lesione, ma addirittura con il principio generale della libertà incondizionata del voto.

(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:59