
La Prima guerra mondiale è una pagina di storia fondamentale per il nostro Paese. Lo si vede anche nell’immensa pubblicistica ad essa dedicata e nei monumenti che la celebrano. Ma basterebbe anche un solo ricordo dei giorni delle scuole elementari, in cui l’insegnamento della storia si mischiava anche ad una buona dose di orgoglio nazionale, non certo spendibile per le vicende del successivo conflitto mondiale.
L’indagine e la ricerca storica investono, e rivisitano, ancora oggi innumerevoli aspetti delle vicende sia del conflitto, sia di tutte le problematiche che lo hanno anticipato o che poi ne sono scaturite. E, come abbiamo avuto modo di apprendere dai giornali, ce n’è ancora uno controverso (forse non l’ultimo); il quale, più che risultare fonte di scontro tra gli storici, è motivo di divisione politica. E quando è la politica a scontrarsi sui fatti della storia, il problema si sposta sulla “memoria”, lasciando il campo della storiografia.
Questo è il caso, utilizzando il titolo di un volume della storica Bruna Bianchi, de “I disobbedienti nell’esercito italiano durante la Grande Guerra”. Ovvero, di quei soldati che o disertarono, o si rifiutarono di combattere; e per questo furono soggetti a fucilazioni. Durante tutto il conflitto, la Procura militare istruì circa 870mila procedimenti. Di cui, oltre la metà per “renitenza” e “mancata chiamata alle armi”. Il resto dei reati vedevano imputati soldati che erano sul fronte di guerra; in tutto 323.527 persone (262.481 soldati e 61.927 civili). Le condanne furono due terzi del totale dei procedimenti, con un’evidente “sperequazione”: esse riguardarono solo un terzo degli ufficiali imputati. Il resto dei “colpevoli” furono soldati di grado inferiore.
Le condanne a morte eseguite furono circa 750. Tra queste, 350 risultano “esecuzioni sommarie”, perché inflitte senza un processo. Altri militi risultarono uccisi per “decimazione” (unica, l’Italia, ad adottare questo metodo di punizione). Un numero imprecisato di soldati venne ucciso per “sbandamento”, dai loro diretti superiori, durante gli attacchi. O dai carabinieri, che rimanevano dietro le truppe, per applicare una logica che, durante la Seconda guerra, ricordiamo racchiusa nel “non un passo indietro” di Stalingrado. I provvedimenti furono emanati sulla base di un codice militare obsoleto (ma non era l’unica cosa vetusta del nostro esercito, vista anche la preparazione degli alti ufficiali), risalente al 1869; e imbarbarito ancor di più grazie alle circolari restrittive del generale Cadorna , le quali avevano forza di legge nelle “zone di guerra”. Le vicende di cui si racconta sono state ricostruite con attenzione dagli storici ed il dibattito ha cominciato a circolare oltre la schiera degli “addetti al lavoro”, arrivando nella società e nel mondo politico.
È ovvio che una situazione come quella descritta si presta ad una duplice lettura: continuare a considerare questi soldati come dei disertori e dei pavidi, avallando anche i mezzi di punizione utilizzati dal Regio Esercito; o riabilitare chi può venire considerato un oppositore di gerarchie militari ciniche quanto impreparate. Responsabili di errori e mancanze nella gestione di una truppa, definita, non a caso, “carne da cannone”. Qui la considerazione del fatto lascia l’ambito della pura analisi storica, per proiettarsi in una valutazione più prettamente politica. Ed è con atti politici e legislativi che il dibattito è stato risolto in altri Paesi come Francia, Inghilterra e Germania, attraverso, per esempio, l’aggiornamento delle liste dei caduti o interventi presidenziali o l’erezione di monumenti. Anche in Italia, che quelle trincee ricorda ogni anno, e sotto la spinta di decine di intellettuali, docenti e rappresentanti di associazioni culturali, i quali chiedevano la riabilitazione di questi soldati uccisi da “mano amica”, la politica si è mossa, e ha voluto prendere una posizione (forse sarebbe meglio dire due posizioni!). E lo ha fatto prima attraverso una proposta di legge firmata da circa sessanta deputati del Partito Democratico, guidati da Giuseppe Scanu, presentata nel maggio del 2015 alla Camera. Il testo, che disponeva la riabilitazione dei fucilati, ma non con un colpo di spugna, bensì con un revisione caso per caso, è stato approvato dalla Commissione preposta quasi all’unanimità (un solo astenuto). Chi prevedeva che il passaggio alla Commissione Difesa del Senato, presieduta da un altro esponente del Pd, Nicola Latorre, fosse una quasi formalità, si è visto smentito. Infatti, non solo il testo ha avuto una lunga battuta di arresto ma, e questa è notizia recente, viene depositata una proposta del tutto nuova; la quale sostituisce, stravolgendola, quella precedente. E lo riscrive con un solo articolo, secondo il quale la Repubblica “onora la memoria dei propri figli in armi fucilati senza garanzia di un giusto processo, e offre commosso perdono a chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo”.
Nessuna “revisione dei processi”, ma concessione del perdono. Le motivazioni alla base di questo ripensamento, e che hanno portato alla cassazione del provvedimento della Camera, sono state piuttosto varie. Come, per esempio, che la “riabilitazione è un istituto proponibile solo dai vivi”; che, comunque, “si potrebbero ingenerare aspettative risarcitorie, e di recupero di emolumenti mai corrisposti” (pur se il disegno originario lo escludeva); o perché si vuole così “allontanare ogni ombra di incostituzionalità lasciando impregiudicato il principio di difesa della patria sancito dall’articolo 52, sia rispetto al passato sia rispetto al futuro, ed evitando che i caduti nell’adempimento del dovere, o addirittura decorati, si ritrovino, nei fatti, considerati alla stessa stregua di coloro che – pur con tutta la comprensione – si siano sottratti a quel dovere”. Sottolineando, inoltre, “… le possibili disparità di trattamento con i fucilati di altre guerre (quali la Terza guerra di indipendenza, la campagna di Libia o la Seconda guerra mondiale”.
Tra le cause ostative addotte dai nostri senatori, trovano anche posto l’assenza di fondi adeguati per le varie procedure riabilitative e l’impossibilità di riaprire l’Albo d’Oro. Il senatore Maurizio Gasparri ha motivato la sua contrarietà al provvedimento della Camera, perché “sembra aver come fine una riscrittura del passato di memoria orwelliana”; secondo la quale, e cerco di parafrasare Gasparri, si consente di credere che tutto possa cambiarsi a piacimento. Questo “manicheismo legislativo”, in sé, lascia abbastanza perplessi. E forse, senza alcuna pretesa di esaustività, merita qualche riflessione. Perché, qui, più che alla storia, siamo di fronte alla riflessione su un “luogo della memoria”. Il quale, come affermato da Paolo Nora, “è uno spazio fisico e mentale che si caratterizza per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici, dove un gruppo, una comunità o un’intera società riconosce se stessa e la propria storia mediante un forte aggancio con la memoria collettiva”.
E noi abbiamo deciso che quello che è accaduto durante la Grande Guerra, diventasse un “heritage”; un patrimonio culturale, sul quale basiamo parte della nostra unità sociale, perché crea identità e continuità. Continuità, che lega una comunità tra passato e presente, dandogli gli “strumenti” per rimanere compatta. E che crea una “tradizione”, ritenuta da Nicola Matteucci l’esperienza del passato, la quale ci consente di entrare criticamente nel futuro. Ma siamo certi che con il solo “perdono” verso quei soldati, il passato, la memoria e la tradizione assurgono a questa funzione? Di fronte ad una ricerca storica, che ci parla di una disciplina militare già allora fuori dal tempo; che ci ricorda come, appena dopo la fine del conflitto, una commissione del generale Tommasi avesse giudicato indiscriminato l’uso dei metodi di punizione pur consentiti dal codice militare. Oppure che la ferocia dei Savoia nel mandare gente al massacro non aveva pari in guerra; o che non era la paura il principale motivo delle diserzioni, ma l’odio verso un autoritarismo senza senso. Ecco, in tutte queste considerazioni, dove possiamo noi leggere una “continuità” tra quegli avvenimenti e la comunità che siamo oggi?
Quei soldati venivano uccisi perché tacciati di “vigliaccheria” o per dare un “esempio” alla truppa. Motivazioni, queste, completamente fuori dalla nostra cultura giuridica e sociale. Sempre la storica Bruna Bianchi ricostruisce le ritorsioni a cui erano soggetti anche i familiari dei soldati in caso di diserzione. Le quali si esercitavano attraverso la confisca dei beni, e per il sol fatto della denuncia. Se ci accontentassimo di una legge che prevede il “perdono”, non avremmo riprodotto uno “schema del passato”, avallando, in fondo, comportamenti e leggi che sono fuori dalla nostra cultura tanto giuridica, quanto politica? Non avremmo fatto un “torto” alla conoscenza dei fatti, perché non l’abbiamo usata per una “trasformazione” (rilettura) della realtà (storica)?
Un Paese che oggi riconosce l’obiezione di coscienza nel proprio ordinamento come un diritto; che non ha mai riconosciuto, nell’Era repubblicana, la pena di morte come punizione, e l’ha eliminata anche dal codice militare, non dovrebbe avere delle “categorie” diverse per giudicare quei fatti accaduti un secolo fa? “Revisione” è un termine importante in questa questione. Essa, volendoci fermare alla definizione giuridica, è un mezzo di impugnazione straordinario esperibile avverso i provvedimenti di condanna passati in giudicato. È un rimedio, in buona sostanza, contro gli errori commessi in passato. Ecco, forse possiamo fermarci qui, proprio sul concetto di errore, per un giudizio diverso, o almeno più “dubitativo” su quei fatti e momenti tragici.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:54