
In margine ad un convegno svoltosi all’Università di Genova in onore di Riccardo Guastini, nei giorni 21 e 22 ottobre 2016, è utile sottolineare alcune distinzioni, che sono chiaramente emerse ed hanno costituito oggetto specifico di approfondimento e dibattito. D’altra parte, lo strumento distintivo (non a caso, “Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto”, Giappichelli, 1996, è lavoro assai significativo e citato di Guastini) ha rappresentato la colonna portante dei suoi studi e del suo insegnamento.
Premessa la distinzione generale tra disposizione (enunciato linguistico prescrittivo) e norma (significato ascritto alla disposizione dai giudici), due sono le distinzioni, a ben guardare tra loro connesse, alle quali occorre prestare particolare attenzione. Da un lato, quella tra interpretazione cognitiva, interpretazione decisoria e interpretazione creativa. Dall’altro lato, quella tra teoria generale del diritto, scienza giuridica, dottrina e giurisprudenza. Come si illustrerà, la prima serie distintiva è funzionale alla definizione dell’oggetto delle discipline giuridiche. L’interpretazione cognitiva consiste nell’individuazione di significati, possibili e plausibili, secondo il senso proprio delle parole, eventualmente integrato dall’analisi del sistema, che le disposizioni possono esprimere. L’interpretazione decisoria individua il significato della disposizione dal significato, ossia la norma, ovvero la regola di comportamento che la disposizione produce.
L’interpretazione creativa è la negazione dell’interpretazione, poiché introduce una norma che nella disposizione non c’è, ma è appunto “creata” dai giudici e dai giuristi. Interpretazione creativa è, pertanto, una contradictio in adiecto, ovvero intrinseca e in termini. Da questa prima serie distintiva discende anche, in negativo, la seconda, che ha a riferimento l’oggetto delle discipline giuridiche. La teoria generale del diritto è l’analisi logica del linguaggio giuridico adottato dalle disposizioni. Essa non utilizza alcuno strumento interpretativo, non pretende di “ascrivere” significati (con un atto che è sempre di volontà), ma di descrivere il meccanismo logico-costruttivo della disposizione.
La teoria generale non è infatti interpretazione, ma individua la struttura delle disposizioni in sé e per sé considerate, senza alcuna finalità individuativa delle norme (e quindi delle regole di comportamento). Essa costituisce lo strumento tecnico (in quanto tale) utilizzato dalle altre discipline giuridiche, quale materia prima per le distinte finalità che si propongono, in relazione ai rispettivi campi di interesse. La scienza giuridica è l’individuazione, l’analisi neutrale dei diversi significati ascrivibili ad una disposizione. Può dirsi che essa coincida con l’interpretazione cognitiva, poiché non si propone di sostenere un significato (e perorare una norma) ossia di fornire la “corretta interpretazione”, ma di elencare, in modo neutrale, tutte le interpretazioni possibili, ossia tutte le norme che, nel limite della ragionevolezza, sorgono da una disposizione. Utilizza la tecnica analitica come metodo di indagine, con una disamina “obiettiva”, ovvero calibrata in senso descrittivo.
La dottrina e la giurisprudenza svolgono, invece, nella rispettiva sfera di azione (la prima, quella dei giuristi nella sede dei giuristi detta “dottrinale”; la seconda, quella dei giudici, ovvero nella sede giurisdizionale e nell’esercizio della giurisdizione) la funzione di assegnare ad una disposizione il significato applicativo, ossia individuano la norma da applicare alla fattispecie. La dottrina segnala, argomentandola, la norma da applicare alla fattispecie astratta o tipica. La giurisprudenza indica la norma che si applica alla fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio e, applicandola, decide la controversia. Entrambe utilizzano, pertanto, l’interpretazione decisoria delle disposizioni, pretendendo di ascrivere ad esse il significato “corretto”.
Dottrina e giurisprudenza si muovono sullo stesso terreno, benché su piani diversi: la dottrina sul piano astratto, la giurisprudenza su quello concreto, che, peraltro, del primo si nutre, condividendo o meno l’interpretazione o una delle interpretazioni fornite dalla dottrina o applicando al caso concreto un’altra norma (frutto di un’altra interpretazione). I due piani, pertanto, anche se utilizzano tecniche e finalità comuni, non coincidono, pur influenzandosi reciprocamente, in ragione del metodo soggettivamente decisorio e prescrittivo (e non descrittivo) con il quale guardano alla disposizione. Come si nota agevolmente, vi è corrispondenza tra interpretazione e presupposti dell’interpretazione e discipline giuridiche. La teoria generale è l’oggetto, la pre-condizione dell’interpretazione; la scienza giuridica è interpretazione cognitiva; la dottrina e la giurisprudenza sono, sui distinti piani astratto e concreto, l’interpretazione decisoria.
La chiarezza concettuale di tale corrispondenza esclude dall’interpretazione quella “creativa”, confermando che quest’ultima non è tale, poiché non produce norme ma disposizioni, ossia muovendosi non nell’ambito cognitivo o decisorio dell’interpretazione, ma nell’ambito della normazione (ossia dell’azione produttiva di disposizioni), che è l’attività non dei teorici, dei giuristi e dei giudici, ma dei legislatori. L’invasione del campo di questi ultimi non solo viola il principio stesso dello stato di diritto, ma scardina addirittura i confini delle discipline giuridiche, il cui rispetto è condizione essenziale per l’affermazione ineludibile del principio democratico.
(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:52