Quello dei migranti non è, come da più parti ormai si afferma, solo un “problema comune europeo”, bensì “Il” problema centrale con il quale l’Europa – in particolare l’Unione europea – dovrà sempre più misurarsi e dal quale, in buona sostanza, potrebbe dipendere il suo destino e la sua stessa esistenza. Non si tratta di timori o profezie apocalittiche, sono i puri e semplici indicatori economici e demografici che stanno lì a dimostrarlo. Infatti la crescita della popolazione mondiale, pur avendo subito, nel complesso, un rallentamento nell’ultimo decennio, vede sempre più squilibrato il rapporto fra l’Europa, che sta soffrendo una sempre più profonda crisi demografica, e le regioni del Medio Oriente e dell’Africa, sia settentrionale che sub-sahariana, dove gli indici di natalità restano i più alti del globo. All’opposto i livelli di ricchezza e benessere e – non ultimi, specie di recente – quelli di stabilità politica e sociale, che rendono la sponda meridionale del Mediterraneo ed il suo vastissimo entroterra continentale una vera “bomba demografica” la cui esplosione, se non già in corso, appare comunque imminente.
In sostanza, la situazione geopolitica e quella, inevitabilmente correlata, dell’Africa e del Medio Oriente è tale da provocare un moto migratorio di massa quale la storia mai, in precedenza, ha conosciuto. Migrazioni di cui quelle cui stiamo assistendo rappresentano solo le prime avvisaglie. Migrazioni che, già oggi, stanno facendo apparire le famose “invasioni barbariche” che travolsero l’Impero Romano una sorta di gita dopolavoristica, e che, per quanto non esplicitamente cruente, rischiano di travolgere non solo i Paesi più direttamente esposti del Mediterraneo settentrionale e della dorsale Balcanica, ma l’Europa tutta, da Occidente ad Oriente, dall’Atlantico sino agli Urali. Travolgerla e sommergerla, con il rischio di cancellarne nel tempo la specificità e le particolarità... sino a far sì che quel Continente, più culturale e spirituale che geografico, che dai greci in poi chiamiamo Europa venga riassorbito dalla grande massa afro-asiatica dell’Isola del Mondo. Sino a trasformarci solo nell’appendice settentrionale del magma africano.
Una prospettiva da incubo, ma che andrebbe presa seriamente per poter cercare di porre in atto delle politiche capaci di governare e frenare il fenomeno migratorio. Senza la pretesa, tuttavia, di arginarlo completamente, che sarebbe mera e pericolosa utopia: muri balcanici e cannoniere schierate nel Mediterraneo sarebbero totalmente inutili a fronte di masse di disperati. E poco importano, sinceramente, i distinguo di lana caprina fra “profughi dalle guerre” e “migranti economici”: difficile operare distinzioni in realtà dove crisi alimentare e conflitti sono una sorta di serpente che si morde la coda. Difficile, anzi impossibile discernere fra milioni di individui in movimento fra chi avrebbe e chi non avrebbe il diritto di cercare rifugio in quella che, nonostante tutto, agli occhi del resto del mondo appare come un’isola felice. Una sorta di Terra promessa.
A questo punto la domanda da porsi dovrebbe necessariamente essere: che fare? Ovvero cosa è ragionevolmente possibile fare per frenare, rallentare, minimamente arginare questo flusso migratorio. Per impedire che divenga marea oceanica e ci travolga. “Aiutarli a casa loro” dicono in molti, e, certo, non è sbagliato. Anzi, sarebbe l’unica soluzione concreta. Tuttavia questa richiede una chiara comprensione di cosa significhi “aiutarli”. Che non può ridursi a meri, ancorché meritevoli, interventi umanitari, ma che deve concretarsi in una precisa strategia politica. Una strategia che muova dalla chiara lettura di questa emergenza, che presenta due livelli. Il primo, e più incombente, è rappresentato dalla crisi alimentare che tormenta sempre più l’Africa sub-sahariana; il secondo dal problema strutturale, ovvero dall’incapacità dei sistemi economici dei Paesi africani di reggere il peso demografico. Diverso ancora il problema per quello che riguarda Maghreb e Medio Oriente, dove la crisi strutturale ed economica è stata provocata e/o acuita dalla crescente instabilità politica e dai conflitti.
L’intervento, qualsiasi intervento non può non essere in prima istanza che di carattere politico. Infatti solo la stabilità politica e la fine, o per lo meno la riduzione dei conflitti renderebbe possibile avviare un processo di riorganizzazione economica tale da rendere il più possibile autosufficienti i Paesi africani e riportare la stabilità in quelli maghrebini e medio-orientali, riavviando il processo di crescita bloccato ed anzi spesso demolito dai conflitti regionali e dalle rovinose “Primavere Arabe”. Il problema, naturalmente, è quale potrebbe essere il soggetto internazionale capace di una strategia politica di ampio respiro. Non parliamo naturalmente dell’Onu, la cui inanità politica è, ormai, certezza acclarata e dimostrata. Parliamo di soggetti politici reali, Stati, o meglio, coalizioni di Stati capaci di porre in essere una nuova “politica di potenza”. E l’onere di questa coalizione non può che pesare sulla Ue, sino ad oggi, purtroppo, incapace di una pur minima convergenza sul problema dei migranti, e che, come dicevamo, su questo si gioca la sua stessa sopravvivenza come Unione e come realtà geopolitica e culturale. Serve, ma meglio sarebbe dire servirebbe ben altra Unione, capace non solo di darsi una comune linea politica, ma anche di dialogare con Mosca sul riassetto del Medio Oriente e del Maghreb, regioni che devono, al più presto, trovare nuovi equilibri e nuova stabilità. Serve una Unione europea che avvii una strategia agroalimentare in sinergia con i Paesi della costa Sud del Mediterraneo, per cominciare a porre un qualche rimedio alla fame che sta divorando un intero Continente e che sospinge le sue genti lungo le vie della migrazione. E, al contempo, un’Europa capace di dialogare anche con Pechino sul riassetto dell’Africa sub-sahariana – ove la presenza cinese si sta facendo di anno in anno sempre più forte – per contribuire a costruire in sinergia strutture statuali capaci di mettere a frutto le potenzialità del Continente Nero, frenandone così la migrazione di massa.
Infine, inutile attendere, al solito, l’intervento di Washington. Se alla Casa Bianca si insedierà Trump assisteremo, con ogni probabilità, ad una sorta di nuovo isolazionismo; se invece toccherà alla Clinton dovremo aspettarci una politica estera estremamente aggressiva, tale da fomentare e non spegnere i focolai di tensione e conflitto che rappresentano la radice del problema.
(*) Senior fellow del Think tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio”
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:55