Riduzione stipendi  e partitocrazia M5S

“Vacche autonominatesi sacre” (Beppe Grillo), “ignobile gentaglia pericolosa” (Alessandro Di Battista). Questa è la cifra che il Movimento 5 Stelle ha dato del Parlamento, in occasione della proposta di dimezzamento dello “stipendio” dei parlamentari. Nonostante la virulenza verbale, gli elettori non sembrano aver abboccato all’esca confezionata da Grillo. Del resto, questo tipo di linguaggio più che il tragico rasenta il comico, mentre oggi, nel bel mezzo di una crisi di sistema, c’è poco da ridere.

La manovra è fin troppo sfacciata per essere credibile. Sa di presa in giro per i cittadini, maltrattati e strattonati da chi la spara più grossa sull’altare sacrificale della riduzione dei costi della casta. Ai grillini finora è andata bene. Ha continuato a giovare con l’esposizione in piazza Montecitorio dell’assegno-lenzuolo del “reso” alle casse dello Stato. La carità istituzionale, infatti, oltre a fargli vincere le elezioni del 2013, ha regalato loro anche Roma e Torino. Perché non riprovare col referendum? È da lì che riparte la campagna per le elezioni politiche, dove Grillo spera di conquistare, contro tutti, la maggioranza assoluta.

Visto il buon esito della trovata, Matteo Renzi aveva provato a inseguire i suoi più temibili avversari, scivolando sulla demagogia del nuovo Senato a costo zero. Ultimamente ha rettificato il tiro, perché la Costituzione italiana non può essere mortificata in questo modo. I costi del Parlamento italiano sono scandalosamente i più alti d’Europa. Vanno ridotti e parametrati alla media dei parlamenti europei. Ma, la demagogia grillina non può prendere anche il presidente del Consiglio. Del resto basta dire - come fa Giorgio Napolitano - che l’aggiornamento della forma di governo s’impone nel tempo della crisi globale, perché serve a salvare gli alti valori della Costituzione del 1948.

Fuori dalla demagogia, la proposta del M5S è imbevibile. La denigrazione dell’intero Parlamento (“ignobile gentaglia pericolosa”), coi tempi che corrono, non giova. La vera battaglia è un’altra: trasformare il rito elettorale in un momento di vera partecipazione, mettendo l’elettore nella condizione di esprimere le scelte sovrane nel modo più responsabile e produttivo possibile. Invece no. Meglio la via breve. Alla ricerca del consenso facile, anche se falso, cioè finalizzato a niente.

Nell’Ottocento i parlamentari non erano retribuiti. Non ce n’era bisogno. Rappresentavano le élites territoriali, nobiliari e culturali del tempo, e disponevano di risorse proprie. È il suffragio universale che ha imposto la retribuzione generalizzata. In questo modo, i rappresentanti del popolo avrebbero potuto abbandonare il proprio posto di lavoro per servire le istituzioni pubbliche. Da qui all’estensione dei privilegi di cui i parlamentari godono oggi, però, il passo è troppo lungo, e va corretto. Il mandato parlamentare non può essere gratuito né superpagato, ma ben pagato sì. Il disinteresse per la politica non è solo degli elettori, ma anche di molti potenziali eleggibili: professionisti, intellettuali, industriali, scienziati, manager, artisti. Questo tipo di personale, potenzialmente politico, già oggi non è attratto dal mandato parlamentare. L’ulteriore mortificazione del ruolo non farebbe che peggiorare la qualità degli eletti. Infatti, la loro estrazione dal “vivaio” dei partiti, non farebbe altro che accrescere lo stuolo dei cosiddetti “funzionari di partito”, tristemente noti nella Prima Repubblica.

Il fenomeno della “burocratizzazione” del personale politico è negativo in sé. Per effetto della feroce competizione che inevitabilmente scatena tra gli aspiranti burocrati all’elezione o alla rielezione, può diventare distorsivo delle stesse regole della democrazia. Il M5S non se n’è accorto. Con la proposta di dimezzare lo stipendio ai parlamentari, per paradosso, da movimento antipolitico si è trasformato nel partito propugnatore della peggiore selezione partitocratica. Un risultato che, assieme alla proposta abolizione del divieto del mandato imperativo, contribuisce alla mortificazione del principio di sovranità, molto di più del nuovo Senato delle Regioni.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:00