
Non si contano le direzioni del Partito Democratico da quando Matteo Renzi è segretario, in cui la cosiddetta minoranza entra lancia in resta ed esce regolarmente carponi.
È diventato un ritornello eterno, infinito, un po’ come la sigla di “Porta a Porta”, annunci, minacce e poi nulla di fatto. Insomma, “al lupo, al lupo” e Renzi tira dritto e se ne buggera. Del resto quando non si ha la forza e, soprattutto, la voglia di andare fino in fondo, questo succede, si perde di credibilità e si diventa inaffidabili.
Infatti, quello che Bersani, Speranza, Cuperlo (and minoranza company) sperano, cioè di intimidire Renzi per obbligarlo a piegarsi, non accade; non solo, ma porta al risultato opposto e cioè di renderlo ancora più spavaldo. Insomma, quello della minoranza Pd è un gioco a perdere e la scusa di voler evitare scissioni non regge più, come non regge l’idea di un partito dove si discute aspramente per decidere uniti.
Il Pd è spaccato, diviso e tormentato da acrimonie personali come non accadeva da decenni, bisogna tornare alla Bolognina di Achille Occhetto per trovare qualcosa di simile, che oltretutto finì con una scissione. Ecco perché la minoranza anti-renziana a rimandare una rottura che è già nei fatti, ci rimette e basta, renderla ufficiale sarebbe un atto di coerenza, più utile e vantaggioso. Gli elettori del Pd anti-renziani apprezzerebbero e quelli a metà strada comincerebbero a pensarci su, non fosse altro che per l’esistenza di un’alternativa. Va da sé, infatti, che solamente una divisione vera potrebbe offrire spazio a chi non condivide il Premier e soprattutto darebbe la possibilità di verificare la consistenza della dissidenza. Ed è proprio su questo punto che il comportamento della minoranza Pd puzza di bruciato, lasciando intendere di avere così paura di contarsi sul serio da rinunciare a farlo.
Sta tutto qui il nodo vero del problema, Bersani e gli altri soci della ditta non hanno nessuna voglia di contarsi, per paura di una figuraccia elettorale nell’eventualità di un voto. Su questa ipocrisia politica Renzi ci inzuppa il pane e da ogni direzione paradossalmente esce rafforzato, punto e a capo. È andata così anche questa volta, la promessa del Premier di cambiare l’Italicum, ma solo dopo il referendum, è infatti una classica presa in giro per dare il contentino. Va da sé, ovviamente, che qualsiasi impegno prima dell’esito referendario, è semplicemente ridicolo, perché comunque vada dopo il voto del 4 dicembre, tutto cambierà necessariamente. Se vincesse il “No”, con o senza Renzi, scatterebbe subito l’opzione “larga intesa” in chiave antigrilllina, per sostenere un governo di fine legislatura in grado di cambiare la legge elettorale e portare gli italiani al voto.
Se vincesse il “Sì”, Renzi sarebbe talmente forte da fare il bello e il cattivo tempo su tutto, indipendentemente dalla minoranza. Dunque, a referendum celebrato Bersani e soci conteranno meno di niente e l’unica possibilità di incidere in qualche modo resta quella di prendere una posizione definitiva adesso. Solo ora e solo tenendo duro in questa fase, anche spaccando il Pd, i dissidenti potranno avere un futuro e una visibilità politica, altrimenti avranno perso tempo per arrivare comunque al suicidio. Insomma la partita è aperta, staremo a vedere, certo che il proverbio “meglio un giorno da leoni che cento da pecora”, con tutto il rispetto, sembra politicamente più illuminante che mai.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:03