
Chi dice sì al referendum costituzionale non ha né ragione né ragioni. Ho assistito al dibattito tra D’Alema e Giachetti, con Mentana moderatore, alla Festa dell’Unità di Roma; dibattito in onda su La7 del 16 settembre che vi consiglio di vedere in Rete. Siccome sto girando l’Italia come portavoce del “Comitato presidenzialisti per il No alla Costituzione truffa”, ho pensato di ascoltare i motivi che un autorevole esponente renziano potesse addurre a sostegno della riforma costituzionale e della legge elettorale.
Roberto Giachetti, che è vicepresidente della Camera ed è stato candidato a sindaco di Roma, viene accreditato come esperto di punta del Partito Democratico nel campo delle procedure parlamentari e degli assetti istituzionali. Ciò nonostante, è apparso tutt’altro nella sua prestazione contro il “vecchio” D’Alema, che ha dato prova di maestria dialettica e assoluta padronanza della materia; e lo ha surclassato. Infatti il “giovane” Giachetti annaspava tapino nel mare delle argomentazioni politiche e giuridiche del leader Massimo, che invece giganteggiava. Il povero Giachetti ha perso più volte le staffe. Però l’intemperanza è un fatto caratteriale perdonabile in una disputa politica. Mentre gli svarioni di fatto e di diritto non depongono affatto a favore di chi vuol perorare una causa adducendoli come prove a sostegno. Era in buona fede? Era in mala fede? In suo favore è meglio pensare che fosse in mala fede, perché, se fosse in buona fede, sarebbe molto peggio. In dibattiti del genere, gli oratori non si aspettano minimamente di convincere gli antagonisti. Sicchè, mentire alla platea può comprendersi come mezzo, sebbene truffaldino, di attrarla a sé, dalla propria parte.
Tuttavia, discutendo di Costituzione, sarebbe dovere di tutti improntare gli interventi all’assoluta onestà intellettuale. Nei contratti è lecito ai contraenti “sese circumvenire”. Ma rifondare e riformare la Costituzione non sono una compravendita. Così Giachetti ha bellamente insistito nell’affermare che l’Italicum, che sarebbe appropriato chiamare “renzino” o, meglio, “ronzino”, è una legge elettorale proporzionale. Proporzionale sì, ma per chi perde; per giunta, con una soglia di sbarramento del 3 per cento. Chi vince si pappa invece in premio fino a 340 seggi (55% di 630-12) e, se vince al ballottaggio, un premio dunque tanto più elevato quanto più basso è il quorum per aggiudicarselo. Giachetti ha dichiarato pure che tale legge non modifica la forma di governo (nonostante l’investitura popolare del Presidente del Consiglio) e non mortifica la rappresentatività (nonostante la maggioranza artefatta e lo schiacciamento delle minoranze). Giachetti infine ha preso un’autentica cantonata sulla “questione di fiducia”. Ho sollevato io questo problema, che sta per fortuna diventando cruciale nei dibattiti. Dico per fortuna perché è gravissimo che il testo Renzi-Boschi non preveda come uscire dal probabile “impasse” del Senato che va in opposto avviso della Camera sulle leggi bicamerali, tra le quali quelle, fondamentali, in materia costituzionale ed europea. Giachetti ha mostrato di non essersi reso conto neppure dell’esistenza del problema ed ha biascicato risposte a caso o con riferimento alle leggi monocamerali. In conclusione ho avuto la conferma, anche ad alto livello, che i fautori del sì non hanno ragioni da opporre alle ragioni del no, ma ripetono il ritornello che la riforma va approvata perché il Parlamento ormai l’ha fatta. Se il meglio è nemico del bene, figuriamoci il peggio!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:05