
L’ultima trovata dei fautori della riforma costituzionale (o di alcuni di essi) di fronte al crescente dissenso dei cittadini è stata quella del cosiddetto “spacchettamento” del referendum previsto per il prossimo autunno.
Si vorrebbe sottoporre agli italiani, che dovranno esprimere la loro sovranità, un referendum per parti separate, ritenendo (o paventando) che un voto sul tutto sarebbe negativo. Si è affermato che ci potrebbe essere consenso su alcune parti e non su altre e allora il voto separato su di esse farebbe risaltare la libertà dell’elettore e la sua volontà riformatrice.
Lo “spacchettamento” avverrebbe, secondo le proposte in auge, con la proposizione di distinti referendum (sottoscritti da un quinto dei deputati o da un quinto dei senatori) o, addirittura, poiché la fantasia non ha confini, con distinte domande sulla scheda, su quesiti rispettivamente inerenti al bicameralismo imperfetto con riserva alla Camera dei deputati della fiducia al Governo; alla composizione ed elezione del Senato; al procedimento legislativo differenziato; al Titolo V delle autonomie territoriali e, da ultimo, a referendum, leggi di iniziativa popolare e composizione della Corte costituzionale.
Trattasi di un espediente inammissibile, oltreché pericoloso. Inammissibile, perché estraneo alla disciplina del procedimento di revisione costituzionale, che presuppone quattro deliberazioni da parte delle Camere e poi (solo eventualmente) il referendum popolare, qualora, nella seconda votazione, non sia raggiunta, in ciascun ramo del Parlamento, la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti, ma solo (e almeno) la metà più uno di essi. Il referendum non può che riguardare, con unico quesito, il testo approvato dalle Camere (e tutto il testo della legge) e non solo una porzione di esso, la quale non ha ricevuto alcun voto a sé stante delle Camere che, ove fossero state in tal senso investite, avrebbero potuto diversamente regolarsi rispetto a ciò che è avvenuto con l’approvazione della riforma nel suo complesso.
Pericoloso, perché dimostra, ancora una volta, la superficialità, per non dire la dolosa trascuratezza, con la quale sono affrontati da chi ha responsabilità pubbliche le problematiche costituzionali, piegate ad esigenze di convenienza politica, alle quali, per la loro natura di norme fondamentali, dovrebbero restare del tutto estranee. Tuttavia, la proposta dello “spacchettamento”, nella sua evidente anomalia, conferma, anche nel metodo, i dubbi sempre più consistenti sulla conformità della riforma agli stessi indisponibili principi, che presiedono il nostro ordinamento costituzionale. La Carta fondamentale, infatti, non prevede né prefigura riforme così pesanti come quella approvata dal Parlamento, indicando solo la possibilità di “leggi di revisione costituzionale”, ossia di singole disposizioni o tutt’al più di un titolo dotato di autonomia concettuale e sostanziale, come avvenne nel 2001 per il Titolo V.
Quella in corso, invece, riguarda, coinvolge o influenza ben cinque su sei titoli della Parte II della Costituzione e, precisamente, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo, le Regioni le Province e i Comuni, le Garanzie costituzionali. In altri termini, viene mutato l’ordinamento della Repubblica e non soltanto un titolo di esso, per cui è impossibile contenere la riforma nella revisione costituzionale, manifestandosi piuttosto come uno stravolgimento della Costituzione.
Infine, ma non da ultimo, alcune disposizioni, come il nuovo Senato (composto con un’elezione di secondo grado, a cura dei Consigli regionali, e pur dotato di significativi poteri legislativi, in alcuni casi paritari con la Camera, come nelle importanti materie della revisione costituzionale, delle leggi costituzionali, delle autonomie territoriali, della formazione ed attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea) e la clausola di supremazia dello Stato sulle Regioni e di entrambi sugli Enti locali non sono certo in linea con i principi democratico e autonomistico, che, in quanto principi fondamentali della Costituzione e addirittura espressione della sovranità popolare, non tollerano lesione alcuna.
Di questi aspetti critici e pericolosi per la democrazia italiana e non certo dello stravagante “spacchettamento” dovrebbe preoccuparsi la Corte costituzionale, inibendo, nell’esercizio della sua essenziale funzione di garanzia, la deriva di una “sconclusionata” riforma, solo fonte di guai per l’assetto istituzionale.
(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:04