La Boldrini, la Boschi e il femminicidio

“Corriere della Sera” del 4 agosto 2016, pagina 16: “Non sopravvive la donna bruciata dall’ex”. E a pagina 17: “Uccide la compagna con dodici coltellate alla schiena”. Sono intervenute la presidentessa della Camera Laura Boldrini e la ministra Maria Elena Boschi. La prima ha chiesto che “oltre alle leggi e ai fondi ai centri sociali antiviolenza” vi sia “un’azione culturale”. A chi l’abbia chiesto non si capisce bene visto che è la terza carica dello Stato italiano. La seconda, la ministra Boschi, anche con delega alle pari opportunità, ha annunciato una “cabina di regia per rafforzare e promuovere azioni di contrasto” che si rinvia all’8 settembre (data che non promette niente di buono).

Sfugge a queste nostre belle icone delle Istituzioni al femminile che la stazione ultima, ma prioritaria per la prevenzione, è il magistrato che riceve la denuncia o dalle forze dell’ordine o dalla vittima delle torture e persecuzioni. Va onestamente segnalato che non può esserci tutela e soprattutto prevenzione se dalla raccolta della denuncia al termine della filiera procedurale la decisione finale, quella esecutiva, quella che consente di adottare delle misure cautelari, resta nell’esclusiva competenza del magistrato. Nell’immediato solo una vigilanza gerarchica, un controllo gerarchico sull’operato del magistrato che ha in carico il fascicolo aperto a seguito delle denunce sulla violenza di genere, può assicurare una decisione che abbia effetti di prevenzione. È documentato dai decessi che nel 90 per cento dei casi la vittima sacrificale, la vessata, la violentata, l’oppressa torturata, l’aggredita dalle persecuzioni dell’ex aveva denunciato, querelato e il fascicolo è rimasto nel cassetto del magistrato inquirente.

Molte sono le spiegazioni del fenomeno: il possesso, la proprietà, la gelosia e parimenti diverse si presentano le indicazioni di prevenzione che in limite potrebbero tutte aiutare in qualche modo e che in ogni caso hanno tempi troppo lunghi per l’azione di prevenzione. Le semplificazioni sono il nemico più nocivo per la conoscenza e la soluzione del problema e spesso ne accrescono la dimensione e il volume. La Boldrini e la Boschi dovrebbero sapere che l’offesa all’orgoglio del pene del maschio, l’organo simbolico per eccellenza del potere e della potenza dell’uomo, è scritta nella cultura antropologica. Uno dei punti fermi dell’antropologia culturale è proprio la globalità del modello culturale, intendendo per modello l’insieme complesso di costumi, tecniche, valori, arte, linguaggio, storia, sentimenti e credenze, che non tanto si sommano quanto s’intersecano, interagiscono fra loro formando uno strettissimo tessuto connettivo interdipendente. È questo che viene chiamato cultura di un popolo, di un’etnia ed in cui neanche un filo può essere strappato o cambiato senza che tutto il disegno si ricomponga a formare nuovamente una trama, un tessuto, cioè un modello culturale. Ed è altrettanto impossibile che un individuo, sia esso maschio o femmina, appartenente ad un determinato modello culturale di riferimento ovunque si trovi, avendone assorbito i significati, i valori e i costumi possa vivere senza usarli o negandone i contenuti. La cultura antropologica è uno strumento biologico perché è il prodotto dell’attività encefalica, senza la quale la specie umana non avrebbe potuto sopravvivere.

L’uomo non si accorge di usarla e quindi l’assume come sua natura al punto da non riconoscerla e da non poterla pensare in forme diverse. Vive i significati della sua cultura, li agisce e se ne lascia agire in forma ovvia, quasi del tutto inconsapevole, senza riuscire quindi a coglierne il messaggio nascosto, ma essenziale. Ma ciò che esiste sempre e soprattutto è un’istituzione, un potere, che connette tutte queste manifestazioni e queste sono un sistema, le cui coordinate, varie e diverse al loro interno, sono identiche nella sacralità di ogni potere laico o religioso che sia ed indipendentemente dalle diverse fenomenologie storiche, culturali ed etniche. L’ambito della sacralità, infiltrata in tutti gli aspetti della vita della società, tessuto connettivo di tutti i tratti di una cultura, è, quindi, pesantemente coercitiva su tutti gli individui. Quello che viene introiettato dall’individuo fin dai primi anni di vita, attraverso il processo di inculturazione, appare naturale e non viene messo in discussione. L’individuo assorbe il tessuto significativo e profondamente interconnesso della propria cultura non attraverso una pedagogia diretta, ma attraverso l’aria stessa che respira e i messaggi sono silenziosi e nascosti, ma ininterrotti.

Il cosiddetto decreto Letta (Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119) è ottimo, ma non viene applicato. È bene ripetere che nell’90 per cento dei casi le decedute avevano sporto denuncia-querela più volte, ma il fascicolo è rimasto nel cassetto del magistrato. E stancamente al funerale delle donne trucidate, bruciate vive, cadute sotto i colpi di machete o uccise da ventiquattro pugnalate, si ripete che non deve più accadere. Basterebbe analizzare la tipologia del femminicida. Sovente è una brava persona, gentile, educato, riservato, rispettoso, generoso verso il prossimo e amico degli animali. Quando pensa che lei abbia offeso il suo orgoglio di maschio, giacendo con un altro, pur essendo stato l’artefice delle rottura del rapporto, inizia la sua incessante e multiforme guerra contro di lei, alternata a promesse di essere cambiato e di voler riconquistare l’amore perduto. Il male dentro è incontenibile, un peso emozionale insopportabile, un implacabile conflitto interiore, che spinge alla vendetta, alla soppressione fisica dell’oggetto perduto. Dopo l’atroce assassinio o si uccide o tenta di uccidersi o si costituisce alle forze dell’ordine.

Raramente tenta la fuga, ma è una fuga simulata, vuole essere preso. Vivrà in eterno con il rimorso, ma si è liberato di un peso emozionale insopportabile. Quando lei non viene uccisa, perché la paura del dopo ferma la mano dell’omicida, si apre l’inferno della stagione dell’odio, della prevaricazione, delle quotidiane torture e delle ininterrotte persecuzioni. All’inferno del quotidiano si aggiunge tutta la violenza dell’ingiustizia dei tribunali - civili e penali - delle false mediazioni, delle incaute e somare professioniste dell’anima: psicologhe forensi, tutrici, educatrici, curatrici speciali per i minori e tutto quel variegato mondo di mezzo, forse più pericoloso di Mafia Capitale, che rinnova la tortura di innocenti, condannando le vittime di maltrattamenti e assolvendo i torturatori, forte di comitati di affari, di potenti camarille, di favori di scambio, di conflitti d’interesse e deportazioni nei lager di Stato (le cosiddette Casa Famiglia) di bambini strappati ai propri genitori e maltrattati dai gestori delle strutture di rieducazione. E di tutta la vasta galassia delle cooperative, associazioni e onlus dove primeggia come brand il supremo bene del minore e dove i bambini sono abusati da incompetenti e venduti ai mercanti dell’odio e della disonestà, interessati alla riscossione di parcelle da capogiro. Tutti sanno che le associazioni di contrasto alla violenza di genere possono fare poco e, peraltro, non tutte le associazioni in difesa delle donne sono uguali, alcune speculano sul dolore delle donne. Sono omologhe a quelle dei consumatori, in difesa dei migranti, dei lavoratori.

Il ragionamento razionale non aiuta a capire. Non vale che è stato lui l’artefice della fine del rapporto, che non si è comportato da compagno amoroso e rispettoso delle libertà della coppia, che ha esercitato il suo dominio di maschio senza curarsi dei desideri, delle aspettative, della dignità e della personalità della compagna. Nonostante la fine, lei non può stare con un altro uomo, forse migliore. Viene sorvegliata, pedinata e fotografata. Anche il nuovo compagno viene spiato, indagato, provocato e minacciato perché si è avvicinato al sacro altare della famiglia perduta. Non si tratta di uomini assenti di studi e cultura, secondo la concezione corrente di cultura. I femminicidi e, comunque, i violenti persecutori, appartengono ad ogni classe sociale: avvocati, imprenditori, magistrati, professori, medici, commercialisti, psicologi, operai, tecnici specializzati, commercianti, artigiani, dipendenti pubblici. La ministra Boschi è molto impegnata sul versante delle riforme costituzionali, forse la delega alle pari opportunità poteva essere conferita alla senatrice Monica Cirinnà, che sul fronte della difesa delle donne ha molto da dire.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:59