
I comitati del “Sì” e del “No” si sono composti sulla linea delle rispettive trincee partitiche, nell’assoluta opacità dei contenuti referendari. I sostenitori ne rivendicano l’“utilità per il futuro dell’Italia”. Gli oppositori, ne sottolineano le criticità delle diverse porzioni del testo, valutate pezzo per pezzo, e ritenute inadeguate, sia nel metodo con cui sono state votate, sia nella tecnica espositiva. Anche gli ultimi 10 dissidenti del Partito Democratico usano gli stessi argomenti e parlano genericamente di deficit di autorevolezza del Parlamento, di creazione di un bicameralismo confuso, di procedimenti legislativi farraginosi.
Gli argomenti di scontro, però, avrebbero dovuto essere ben altri, perché la riforma ha due chiari intenti, sui quali si dovrebbe poter discutere e dissentire: 1) il progetto di potenziamento del ruolo del Governo in Parlamento, al fine di metterlo in condizione di attuare il proprio programma; 2) lo svuotamento di alcune funzioni regionali in favore dello Stato centrale. È su questo che si vota.
Se i partiti, oltre che guardare al proprio ombelico, fossero coerenti con la propria cultura di riferimento, su questi temi dovremmo riscontrare due sole posizioni di aperto dissenso: 1) quella dei movimenti della sinistra radicale, da sempre favorevole alla centralità del Parlamento, che relega il Governo in un ruolo minore, di pura e semplice “esecuzione” degli indirizzi parlamentari; 2) quella della Lega di Umberto Bossi e Matteo Salvini che, fino a prova contraria, interpreta l’anima federalista del panorama partitico italiano. Ma, la partita si gioca, ancora una volta, sulle contingenze politiche del momento, con la conseguenza che, l’ipotetica eterogenea maggioranza costituita per far vincere il No, non sarà mai in grado di costruire un coerente progetto di riforma. È per questo che le riforme in cantiere non mi sembrano rinviabili.
La forma di governo che abbiamo avuto nella “Prima Repubblica” si è caratterizzata per la centralità del Parlamento. Qui hanno trovato piena rappresentanza tutti i partiti, anche i più piccoli, sia di maggioranza che di opposizione, le formazioni sociali, i territori, i sindacati, le corporazioni, i gruppi d’interesse, le lobby, le associazioni, le religioni, gli ordini professionali, in un contesto in cui il Governo aveva solo la funzione di raccogliere l’insieme delle rivendicazioni (soprattutto economiche e sociali), per esaudirle, con la distribuzione delle più diverse utilità.
Questo approccio di tipo consociativo-distributivo, pur se compatibile con un ciclo economico di grande espansione, è stato la vera causa dell’attuale indebitamento dello Stato, fino ai macroscopici livelli attuali (2300 miliardi). Dopo l’entrata in vigore del trattato di Maastricht (1992), queste prassi di governo non sono più praticabili. L’Unione si è data una serie di regole vincolanti, in larga massima restrittive e obbligatorie. Per questo l’Italia, nonostante la pretesa flessibilità, è costretta ad assumere comportamenti rigorosi nel governo della finanza pubblica, invertendo l’insieme delle “allegre” prassi di governo che hanno dominato fino a ieri.
Il nuovo contesto di regole richiede adeguati aggiustamenti degli organismi costituzionali e delle prassi di governo. Delle due l’una, o l’Italia fa la scelta, catastrofica per un paese debitore come il nostro, di abbandonare l’Unione, oppure si deve attrezzare per gestire una fase della politica nazionale caratterizzata da maggior rigore, più giustizia distributiva, maggior senso di responsabilità. Il bicameralismo imperfetto, la riforma del Senato, la semplificazione dei procedimenti legislativi, la priorità dell’ordine del giorno del governo, vanno in questa direzione. La sinistra radicale italiana che, coerentemente con il primato della rappresentanza, non ha mai accettato l’Europa liberale dei mercati, della concorrenza e della finanza, non può che essere coerente e nostalgica nella difesa delle forme di governo consociate da prima Repubblica.
Allo stesso modo, nello stesso fronte, la Lega, coerentemente, non può che osteggiare la riforma del Titolo V, che svuota i poteri delle Regioni. Lo stesso deve coerentemente fare chi, al di fuori della Lega e della sinistra radicale - pur se per diverse ragioni - ritiene che la sanità, l’energia, la sicurezza alimentare, l’ordinamento scolastico, l’istruzione universitaria, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela e la sicurezza del lavoro, la tutela del paesaggio, dell’ambiente e dell’ecosistema, il governo del territorio, debbano restare nella gestione divisa e frazionata delle regioni. In ogni caso, si sappia che la ridefinizione del rapporto Stato- regioni, più che un’opzione della riforma costituzionale, è una necessità: un obbligo, che promana direttamente dalle decisioni della Corte costituzionale.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03