
La riforma costituzionale approvata dalle Camere e sottoposta a referendum nel prossimo autunno, con date altalenanti, a seconda delle convenienze politiche contingenti, a dimostrazione della sua vacuità costituzionale, non è stata, a mio avviso, né meditata né valutata adeguatamente. In particolare, con riferimento al Titolo V, la riforma opera tre scelte molto serie, che avrebbero meritato ampio dibattito, a tutti i livelli, anche con le forze sociali.
In primo luogo, è abolita la potestà legislativa concorrente regionale, la quale prevede che spetta allo Stato la fissazione dei principi fondamentali delle materie e alle Regioni la disciplina delle stesse. Si indica, infatti, una lunga serie di materie di competenza esclusiva statale, affidando quella residuale alle Regioni, ma è difficile individuare materie non riconducibili al primo elenco. Quando poi si passa all’enumerazione delle “materie” di potestà regionale, ci si trova in realtà di fronte a “non materie”, relative a “programmazione”, “valorizzazione”, “promozione” e “organizzazione” di ambiti disciplinati dallo Stato.
Si torna quindi indietro rispetto alla precedente riforma, che promuoveva le autonomie e, pur potendosi anche sostenere l’opportunità (peraltro non condivisibile) di una abolizione delle Regioni (analogamente a quanto avvenuto per le Province), attesi i risultati complessivamente insoddisfacenti del sistema, occorre che una operazione di questo tipo sia adeguatamente ponderata e discussa, come invece non è avvenuto.
In secondo luogo, viene introdotta la cosiddetta “clausola di supremazia”, che costituisce la sostanziale abolizione della potestà legislativa regionale, consentendo sempre l’intervento della legge dello Stato, “in materie non riservate alla legislazione esclusiva, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. In relazione alla predetta clausola, occorre chiedersi chi stabilisce quali siano e in che cosa consistano l’interesse nazionale e le esigenze di unità economica, fermo restando che non sussistono (né sono mai esistiti) dubbi sull’unità giuridica. Sarà evidentemente lo Stato a decidere, con conseguente inutilità della Regione. Ci si dovrebbe quindi interrogare su di una effettiva volontà di abolire le Regioni perché è ciò che effettivamente avverrà, con tale riforma, anche se non vi si procede formalmente.
Vi è di più. Quella del 2001 era una buona riforma, anche se poi, in ragione dell’orientamento restrittivo della Corte costituzionale, che ha elaborato una giurisprudenza favorevole allo Stato, le Regioni sono stare molto vincolate. Detta riforma ha costituito il punto di arrivo del dibattito degli Anni Novanta sul federalismo, di cui si cominciò a discutere dopo il 1994 con l’ascesa politica della Lega Nord, mentre in precedenza non se ne discuteva. Ricordo che, negli anni Ottanta, l’unico a parlarne era il professor Piergiorgio Lucifredi, del quale sono stato allievo.
Il federalismo è un concetto in sé positivo, perché si propone avvicinare il governo ai cittadini, spostando il potere al livello più decentrato e quindi più vicino ad essi (tipicamente in tal senso opera il principio di sussidiarietà verticale). Il federalismo si afferma pertanto accanto ad un processo di riforma, che valorizza non solo le Regioni ma anche gli Enti locali (cosiddetto Federalismo municipale). Infatti (e veniamo al terzo profilo critico dell’attuale riforma del Titolo V), vi è una norma nel testo vigente che consente agli Enti locali di avere la disponibilità di una fonte direttamente subordinata alla Costituzione, in relazione all’organizzazione e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite (esempio tipico è il trasporto pubblico cittadino, disciplinato con regolamento comunale, senza che alcuna legge statale o regionale possa imporne le modalità organizzative). La norma rimane, ma (e qui entra in gioco un aspetto tecnico che non viene colto da molti né spiegato dai fautori della riforma) si subordina la potestà regolamentare degli Enti locali alla legge statale e regionale.
Aggiungasi la gattopardesca conseguenza, che si verificherà con l’abolizione delle Province, ossia promuovere le Unioni di Comuni per l’esercizio di quelle funzioni di area vasta, di livello infraregionale, che i Comuni non sono in grado di svolgere da soli, confermando la necessità di un ente intermedio. L’indebolimento della potestà normativa degli Enti locali e la sostanziale privazione della loro autonomia politica possono essere o meno condivisi, ma bisogna informarne i cittadini e discuterne, anche alla luce dell’indisponibile e fondamentale principio autonomistico. Quanto sopra smentisce una delle motivazioni dei fautori del “Sì”, ossia che la riforma si ispirerebbe ai sistemi tedesco e francese. Da un lato, le Germania è uno Stato federale e, quindi, l’esempio non è calzante, essendo i Lander e le autonomie locali tedesche molto forti e dotati di una penetrante iniziativa politica e di governo. Dall’altro, la Francia è uno Stato tipicamente accentrato, con un apparato amministrativo di derivazione napoleonica, ma tale sistema non si concilia con il particolarismo tipico dell’Italia e con le relative esigenze.
Vero è che le due parti della Costituzione non sono svincolate e pertanto non è possibile modificare in qualunque modo la seconda, senza incidere sulla prima, in quanto la Costituzione è stata pensata in un contesto unitario e con un afflato unitario, quale sintesi virtuosa di differenti e anche opposte idealità. Prima di passare a trattare della ulteriore parte fondamentale della riforma, occorre chiedersi la ragione per cui il Governo l’ha propugnata, incorrendo in un’altra anomalia, poiché la riforma costituzionale non è e non può essere materia di governo, riguardando la definizione di regole fondamentali, che richiedono il più ampio consenso possibile. In realtà, ha tentato di legittimare se stesso di fronte alle istituzioni europee, per dimostrare che promuove le riforme ma senza spiegare la loro effettiva utilità (quale sarà l’esito di questa riforma è difficile da dire). Il senso dichiarato della riforma è quello di rendere più efficiente il procedimento legislativo, che non sarebbe tale a causa del bicameralismo perfetto.
Intanto, occorre precisare che detto principio riguarda due aspetti: il rapporto di fiducia e il procedimento legislativo. Il primo si considera un problema risolto, in quanto, nel nuovo assetto, derivante dalla legge elettorale cosiddetto “Italicum”, il Governo godrà di ampia maggioranza alla Camera dei deputati (che diverrebbe unica depositaria del rapporto fiduciario) e sarebbe quindi vero dominus del Parlamento. Quanto al secondo aspetto, si ritiene che il bicameralismo perfetto sia inefficiente a causa del sistema della “navette”, per cui il testo legislativo deve passare da una camera all’altra fino a quando le stesse non raggiungono l’accordo sul medesimo testo. Un tale ragionamento è frutto di approssimazione, perché non considera o sottovaluta che, alla base della predetta inefficienza, sta un problema politico di condivisione della legge. In altri termini, l’esasperazione del meccanismo della “navette” significa che in Parlamento non vi è una maggioranza che vuole quella legge, perché, altrimenti, una legge si approva anche in tre giorni (un recente esempio è quello della legge sul finanziamento dei gruppi parlamentari) e quindi il problema non è costituzionale ma politico. Prima di riformarlo, bisogna riflettere sulle ragioni per cui troviamo il bicameralismo perfetto in Italia e non negli altri paesi europei.
In Europa vi sono due Paesi dotati di Parlamento monocamerale, la Grecia è il Portogallo (oltre alle piccole democrazie baltiche). Anche in Italia le forze di sinistra desideravano una sola Camera ed hanno accettato il bicameralismo perfetto, ritenendo che avere due Camere uguali fosse come averne una. Da un altro punto di vista, si può partire dalla considerazione che gli altri Paesi europei hanno un sistema bicamerale diseguale (e mi riferisco in particolare alle grandi democrazie europee quali Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna), ma la situazione dell’Italia è diversa, perché mentre in tali Paesi le forze politiche di legittimano reciprocamente, così non avviene nel nostro sistema (e non è più avvenuto dopo l’Assemblea Costituente: si pensi alla divaricazione tra Pci e Dc alle elezioni del 18 aprile 1948).
In Italia manca un comune sentire tra le forze politiche e il miracolo della Costituente fu di trovare, in un Paese diviso, un punto di accordo (costituito dal bicameralismo perfetto) che lo potesse tenere unito, scongiurando l’affermazione di una logica di un solo organo che decide, in favore di uno spirito dialettico, che permea tutta la Costituzione. D’altra parte, l’attuale Governo non ha problemi decisionali a causa del bicameralismo perfetto, essendo in carica da oltre due anni. Pertanto, il bicameralismo perfetto, dal punto di vista costituzionale, non è di ostacolo a dinamiche politiche efficienti, così confermandosi che il problema (se problema vi è) è politico. Questa riforma modifica l’assetto bicamerale, introducendo un Senato, la cui composizione è data da novantacinque Consiglieri regionali e Sindaci, questi ultimi nella misura di uno per ciascuna Regione e Provincia Autonoma, eletti con metodo proporzionale, oltre a cinque senatori “a tempo”, mentre attualmente sono “a vita”. Il Senato dovrebbe svolgere delle funzioni anche paritarie con la Camera, nei casi di revisione costituzionale, leggi costituzionali, autonomie territoriali, formazione ed attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per cui in tali ipotesi il bicameralismo rimane perfetto, mentre per il resto è una Camera di disturbo, che non esiste in alcun Paese europeo, secondo un meccanismo che prevede che il Senato, entro dieci giorni dell’approvazione di un disegno di legge, può disporre di esaminarlo e, entro i trenta giorni successivi, chiedere alla Camera di apportare modifiche.
È del tutto evidente che la predetta funzione non verrà esercitata per leggi di secondo piano, che anche nel sistema vigente si approvano rapidamente, ma su questioni che avranno provocato ampio dibattito nel Paese (si pensi alla recente esperienza della legge sulle unioni civili). Ne consegue che, anche con il nuovo regime, si porrà certamente un problema politico. Quindi, anche tecnicamente, la riforma è profondamente sbagliata e demagogica, in primis in ragione dell’incarico gratuito che i senatori svolgeranno. Dalla semplice lettura della riforma sul punto, si nota che il Senato non ha funzioni di poco rilievo. Pertanto, per come è strutturata la sua composizione e legittimazione, nonché per la gratuità dell’incarico, verosimilmente tali funzioni saranno svolte poco seriamente e il Senato sarà un organo dannoso. La demagogia non può albergare nella Costituzione e, infatti, essa prevede oggi un’indennità (che è cosa diversa dallo stipendio) per chi esercita l’importante mandato parlamentare. Dalle considerazioni sopra svolte emerge che la riforma contiene errori anche specifici e credo che la sua approvazione non renderà il sistema più efficiente, semmai il contrario. In realtà è stata fatta una riforma comunque sia e il Governo l’ha utilizzata per legittimarsi, sapendo di non esserlo, come conferma la richiesta del referendum costituzionale che è strumento per chi dissente dalla riforma e non, come in questa circostanza, per chi l’ha approvata.
(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58