
“Se la schiacciante maggioranza la pensa in un certo modo, é giunto il momento di prendere in seria in considerazione l’opinione della minoranza”.
Flessibilità: ecco la nuova parola magica che, secondo il 90 per cento degli italiani, garantirebbe la concretizzazione di un’altra parola magica, ossia la crescita. Il ragionamento è semplice: poter allargare i cordoni della borsa permetterebbe allo Stato di avviare investimenti pubblici e ciò creerebbe nuovo lavoro, dunque nuova domanda e alla fine la crescita. Chi si oppone a questa strategia? I tedeschi, sostenitori di un rigorismo che costringe gli Stati più deboli a tirare la cinghia mentre loro nuotano nel benessere. Quindi, noi sappiamo cosa dovremmo fare ma, ad impedircelo, è il nemico esterno, accomunato, in questo a quello interno rappresentato dai nuovi untori manzoniani, cioè le banche.
Per la maggioranza degli italiani il rigore evoca il freddo gelido dell’inverno, qualcosa di vecchio e la paralisi di ogni attività, mentre la flessibilità evoca la primavera, lo stimolo ad agire e persino il fresco dinamismo dell’atleta. Insomma, il rigore è ottuso e conservatore mentre la flessibilità è aperta e progressista. Ma il ragionamento è troppo semplice proprio perché troppo condiviso. Esso si fonda su un senso comune che, anche sulla base di ricordi storici mal interpretati, vede solo la faccia positiva e promettente della medaglia ma non quella negativa. L’intervento dello Stato è solo raramente portatore di sviluppo poiché esso implica una sola crescita sicura, quella del debito pubblico.
L’Italia ha seguito questa strategia per decenni, dopo la Seconda guerra mondiale e se per qualche tempo il debito si era mostrato sostenibile grazie alla ricchezza reale generata dal successo della nostra iniziativa industriale privata, da almeno trent’anni le cose non stanno più così. Almeno la metà del nostro debito pubblico, diciamo dalla fine degli anni Settanta in poi, non aveva più alcuna ragione post-bellica per crescere e, infatti, è cresciuto a causa di una serie di spese che tutti - gli stessi tutti che ora chiedono flessibilità ma che in altri momenti conoscono e condannano - : salvataggio di imprese decotte, pensioni allegre, deficit incontrollati degli enti locali, abnorme aumento numerico dei dipendenti pubblici, enormi sprechi regionali e ministeriali, costi iperbolici della sanità, e così via.
Il risultato, questo sì storico, consiste nel nostro primato mondiale in fatto di debito pubblico, una massa vertiginosa di miliardi di Euro che esige una massa enorme di miliardi di Euro di interessi da pagare a chi ci presta soldi. È del tutto evidente che la flessibilità non sarebbe gratuita perché andrebbe ad aumentare la nostra dipendenza dai mercati finanziari e dalla loro probabile riottosità a finanziare ulteriormente lo Stato italiano. Certo, la crescita ci aiuterebbe a ridurre il debito, ma solo qualche incrollabile sostenitore della medicina omeopatica può pensare che ciò possa avvenire... aumentandolo.
Inoltre, gli investimenti statali classici in infrastrutture generano scarsa innovazione mentre nel mercato globale è premiato chi sa innovare. Ma l’innovazione è tipicamente generata dai privati e sono loro, se ci sono, che andrebbero aiutati salvandoli dalla burocrazia, da una scuola vecchia, da una ricerca mal finanziata e dalla corruzione. Nonché dalla famelica imposizione fiscale, figlia diretta delle spese statali che nessuno finora è riuscito a comprimere significativamente. Si sente spesso dire che “prima si stava meglio” ed è vero, ma si dovrebbe aggiungere che vivevamo allegramente a debito o, come dicevano ostinatamente Malagodi e La Malfa, “oltre le nostre possibilità”.
L’ingresso nella zona Euro ci ha salvati dal disastro ma una flessibilità “all’italiana”, cioè intesa come spesa senza diminuzione di burocrazia, sprechi e pressione fiscale, potrebbe ricondurci sull’orlo di un precipizio peggiore e definitivo. Dovremmo invece convincerci che la crisi attuale sta mettendo in luce la nostra vera dimensione e le nostre vere forze e faremmo meglio a pensare al nostro futuro in base alla ricchezza reale che siamo in grado di produrre e non in base ai prestiti di chi ne crea di più.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:22