
Trentatré. Trentatré anni fa, comincia l’infamia. È il 17 giugno del 1983. L’autodafé prende corpo la mattina presto, i carabinieri irrompono in una stanza dell’hotel Plaza di Roma. C’è un uomo. Un uomo famoso, quando appare in televisione mezza Italia si ferma a guardarlo. Si chiama Enzo Tortora, quell’uomo. Il 17 giugno di quell’anno è come se l’intero universo gli caschi addosso. Lo arrestano, e si trova incollati reati da far tremare le vene ai polsi: lo accusano di essere un “cumpariello” della camorra legata a Raffaele Cutolo; lo accusano di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di cocaina… Dopo, ma solo dopo, dopo “tanto dopo” si saprà che è stato arrestato per “pentito preso”; che non c’è ombra di prova, di indizio, non c’è nulla. Il 3 maggio del 1987 Leonardo Sciascia sul quotidiano spagnolo “El Pais” annota: “Cuando la opinión pública se muestra dividida acerca de algún caso judicial espectacular - dividida en inocentistas y culpabilistas -, en realidad la división no se realiza sobre el conocimiento de los elementos procesales a cargo del imputado o a su favor, sino más bien según simpatías o antipatías”. Traduciamo: “Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa tra “innocentisti” e “colpevolisti” - in realtà la divisione è tanto sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, quanto per impressioni di simpatia o antipatia”. Ed è, aggiunge Sciascia come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Quello per settimane, mesi, è il cosiddetto “caso Tortora”: chi detesta il suo modo di fare televisione, lo ritiene colpevole; chi ai suoi programmi è affezionato, lo ritiene innocente. Questo con buona pace della legge, del diritto; e, diciamolo, della giustizia, parola spesso vuota, in questo caso, più di sempre.
Ancora oggi, trentatré anni dopo, resta inspiegabile come degli investigatori, dei magistrati, persone che dovrebbero essere “esperte” nel valutare e discernere, abbiano potuto dare credito a personaggi come Giovanni Pandico o Pasquale Barra, e via via, poi, a tutti gli altri sedicenti “pentiti”, e per dire, Gianni Melluso, la cui “biografia”, pubblicata, è una raccolta di panzane che lascia allibiti e sgomenti. Ancora oggi, trentatré anni dopo, resta inspiegabile che il Pubblico Ministero, nella sua requisitoria abbia potuto dire, senza ombra di incertezza: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. “Cercavamo”… Mai pedinato per coglierlo con le mani nel sacco, come pure sarebbe stato logico fare. Nessuna intercettazione telefonica nelle sue utenze. Nessuna ispezione patrimoniale e bancaria per cercare di individuare come e dove finiva il frutto del suo delinquere; neppure ci si dà pena di verificare a chi appartiene realmente il numero di telefono trovato nell’agendina di una convivente di un camorrista da quattro soldi.
“Cercavamo”… Chi ha cercato? Come ha cercato? Cosa ha trovato? A trentatrè anni di distanza, sono interrogativi senza risposta. Si può cercare di capire; per farlo c’è bisogno di inquadrare l’operazione “settembre nero della camorra” in un contesto più vasto. Un contesto che ci riporta a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani e la, conseguente, “trattativa” (questa sì, vera trattativa) tra Stato, terroristi e camorra. Per la vita di Cirillo si chiede un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte si “perde”, trattenuta non si è mai ben capito da chi. Un riscatto, si dice, di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da amici costruttori. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, affari colossali. La commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato: molti che forse potrebbero spiegare qualcosa non sono più in condizione di farlo, tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato.
Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra e la ricostruzione post-terremoto? A legare questi “fili” non è un giornalista affetto da galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.
In questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Ora tutti parlano dell’infamia di cui Enzo è rimasto vittima. Trentatrè anni fa, quando dire quello che oggi dicono tutti, s’era in pochi: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Enzo Biagi, Vittorio Feltri, Massimo Fini, Indro Montanelli, Marco Pannella e chi scrive; conto otto nomi, ma diciamo pure dieci, quindici, venti. Eppure quando Tortora viene esibito come “mostro”, in realtà di una mostruosità è vittima; mostruosità che si può vedere subito, e proprio chi avrebbe dovuto e potuto vederla non la vede. Non vuole vederla. Enzo Tortora da quella vicenda non si è mai completamente ripreso. Stroncato da un tumore ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla sua tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:48