
Diciamoci la verità, da questo primo turno di elezioni escono fuori poche novità e molte scontatezze, solo chi faceva finta poteva immaginare esiti diversi. Noto a tutti il testa a testa sul filo di lana fra Beppe Sala e Stefano Parisi a Milano, arcinota la netta supremazia della grillina Virginia Raggi a Roma, stranoto il primato di Luigi De Magistris a Napoli.
Le stesse percentuali, nonostante il divieto di pubblicazione dei sondaggi, erano in larga parte conosciute più che mai dai giornali che oggi strepitano su questo o quel risultato. Del resto da tempo, il primo a sapere dell’aria che tirava è stato proprio il Premier, per questo da mesi ha provveduto ad occupare la Rai, da mesi ha provveduto a piazzare i suoi uomini in ogni dove, da mesi ha alzato il livello di fanfaluche e di promesse elettorali. È chiaro, infatti, che chi gioca a bluffare cerchi di predisporsi al meglio nella speranza di far abboccare gli altri; dunque, quale grande novità si è scoperta?
Che il Pd renziano fosse in affanno totale si era capito, non solo dalle spaccature sempre più evidenti al suo interno, ma dalla necessità di ricorrere a Denis Verdini e ad una serie di trasversalismi opachi. Di pari passo si era capita l’agonia di Forza Italia che, Milano a parte, ha solo commesso una serie imperdonabile di sciocchezze autolesioniste, puntualmente testimoniate. Non c’è lista civica che tenga quando a sostenerla ci sono partiti, politici discutibili, esponenti di governo e di opposizione.
Dunque, anche la storia della civicità, estranea all’appartenenza, agli schieramenti, alle bandiere di partito, a Roma, come in gran parte d’Italia, è diventata una vera e propria barzelletta. La gente ha capito bene il trucco e abbocca sempre meno, del resto la politica italiana è nota per riuscire con improbabili escamotage a svilire anche i fenomeni potenzialmente più significativi. Per questo diciamo che il risultato di questa prima tornata non rappresenta alcuna sensazionale novità e lo stesso successo grillino, in attesa dei ballottaggi, era più prevedibile che mai.
Al contrario è evidente che il vero nuovo arriverà dal 20 giugno in poi, perché se come ci auguriamo Parisi dovesse farcela e come sembra anche la Raggi, c’è da aspettarsi di tutto. C’è da aspettarsi in primis una reazione nucleare di Renzi, a suon di promesse planetarie sulla ricchezza e sul benessere che ci regalerà. Il Premier, infatti, colto dal terrore di perdere il posto offrirà di tutto e di più. C’è da aspettarsi a Roma, finalmente, la prova di quanto i grillini siano migliori e più bravi del resto del mondo; sembrerà strano, ma forse il destino aveva assegnato proprio alla Capitale un’incombenza così grande.
Certo che un rischio simile stia tutto sulle spalle dei romani preoccupa e non poco, Roma è già ridotta così male che un flop la ridurrebbe definitivamente a brandelli, ma tant’è. Al netto di tutto ciò e alla luce dei risultati definitivi, dopo il 20 giugno inizierà la vera partita sia per Renzi e sia per gli italiani. Perché, sia chiaro, visto che il Premier ha voluto cocciutamente personalizzare il referendum costituzionale di ottobre, la sfida sarà solo ed esclusivamente tra Renzi e i cittadini. A ottobre, infatti, non si voterà per un partito o per un programma politico, ma per un modo di intendere la democrazia e la forma repubblicana dell’Italia.
Da una parte quella di Renzi e della Boschi, un’idea di concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo, un’idea che azzoppa le difese dalle velleità del Premier, un’idea che scivola pericolosamente verso la monocrazia. Dall’altra, un’idea di democrazia compiuta che, con il no alla riforma, conferma la indifferibile necessità dell’esistenza di pesi e contrappesi, per evitare il pericolo che la partecipazione diventi sottomissione. Insomma, per paradosso è come se gli italiani tornassero indietro nel tempo a quel mitico 2 giugno 1946, quando furono chiamati a decidere fra Monarchia e Repubblica.
A ottobre, infatti, se vincesse il sì una qualche camuffata forma di Monarchia tornerebbe in campo, perché al di là delle bugie che sentiamo in giro, quando viene meno il check and balance non solo i poteri si concentrano, ma diventa quasi impossibile contrastarli. Dunque, al referendum costituzionale qualcosa di simile rispetto a quello del 1946, pur con tutte le differenze storiche e politiche, ci sarà. Comunque sia prepariamoci bene, perché la partita sarà definitiva, vincerla o perderla non solo cambierà le cose, ma lo farà per lungo tempo e non sarà per niente facile retrocedere. Noi voteremo no, perché non c’è cambiamento più pericoloso di quello che toglie anche una minima parte di libertà e una minima parte di democrazia, per come la intendiamo e per come i Padri costituenti ce l’hanno consegnata.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:49