Sullo scioglimento dei Comuni per mafia

Lo scioglimento di Consigli comunali del nord perché infiltrati o condizionati dalla criminalità organizzata, come è avvenuto recentemente per Brescello, desta sempre un certo stupore. Così come ha destato scalpore che l’ipotesi dello scioglimento per mafia sia aleggiata per mesi sulla stessa capitale. Ben più frequenti e meno clamorosi sono invece gli scioglimenti che riguardano i Comuni del Mezzogiorno, alcuni dei quali hanno il poco invidiabile primato di essere stati sciolti per mafia tre o addirittura quattro volte da quando - esattamente venticinque anni fa - fu introdotta nell’ordinamento la possibilità di sciogliere gli organi degli enti locali per fenomeni di condizionamento e infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali di stampo mafioso.

L’argomento mi coinvolge in quanto commissario straordinario e in quanto, nel 1991, ho partecipato alla stesura del decreto legge 164 sullo scioglimento degli organi degli enti locali per questa precisa fattispecie. All’epoca e negli anni seguenti si parlava comunemente di “decreto Taurianova”, dal nome del primo Comune sciolto. Successivamente il testo di legge è stato più volte modificato e ampliato e ora lo ritroviamo nel testo unico delle leggi sugli enti locali.

Il dato più significativo della legge riguarda la durata dello scioglimento, che varia da un minimo di dodici mesi a un massimo di diciotto, con la possibilità di una proroga di ulteriori sei mesi. Si tratta di un periodo considerevolmente più lungo rispetto alle altre ipotesi di scioglimento, la cui durata può esaurirsi in pochissimi mesi, giusto il tempo di agganciarsi alla prima tornata elettorale utile. Altro elemento interessante è che il Comune sciolto sulla base di tali motivi è retto fino alle elezioni da una terna di commissari straordinari e non da un solo commissario.

La riflessione sulla legge deve essere affrontata sotto un duplice profilo. Il primo è quello che riguarda la sua legittimità, dal momento che essa consente di intervenire sospendendo il diritto di voto per un periodo considerevolmente lungo, affidando la gestione della cosa pubblica non a organi elettivi, bensì a una commissione straordinaria scelta dal governo. Su questo punto è già stata fatta sufficiente chiarezza, ma giova ripeterlo: la legge ha retto di fronte ai numerosi ricorsi presentati alla Corte costituzionale, ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato. Quindi sulla legittimità dell’impianto normativo non dovrebbero più esserci dubbi.

Il secondo profilo d’interesse è meno tecnico e purtuttavia riguarda aspetti delicati che attengono all’esercizio della sovranità popolare. Taluni sostengono che si arriverebbe a configurare una vera e propria sospensione dei princìpi democratici a fronte del comportamento colluso o condizionato di alcuni componenti dell’organo elettivo. Il ragionamento è apparentemente corretto: perché non intervenire selettivamente sugli amministratori esposti anziché privare gli elettori del diritto di scegliersi i propri amministratori per un periodo che può arrivare fino a due anni? A questo riguardo occorre chiarire due aspetti. Anzitutto la possibilità di rimuovere singoli amministratori esiste ed è esercitata. Ed esistono anche norme che prevedono la decadenza di amministratori che si trovano in determinate situazioni di fronte alla legge. L’intero consesso, invece, viene sciolto quando non è possibile intervenire chirurgicamente a causa della vastità dell’infiltrazione, che può anche emergere (ma non necessariamente) da indagini giudiziarie. Ricordo il caso di un comune del casertano in cui i componenti degli organi comunali si riunivano a casa del locale capomafia, benché fosse latitante. È evidente che in certi casi sia necessario far ricorso a misure energiche e anche durevoli nel tempo, per ripristinare i requisiti minimi di correttezza democratica. E, aggiungo, anche di agibilità amministrativa, dal momento che può verificarsi che anche l’apparato burocratico sia acquiescente e risponda a interessi di parte che niente hanno a che fare con il bene pubblico.

Talvolta si sente ripetere che gli enti locali verrebbero sciolti sulla base di un mero quadro indiziario e con eccessiva facilità. È una affermazione da correggere. Vero è che si tratta di una misura amministrativa (seppur di alta amministrazione) di carattere cautelare, per cui lo scioglimento non esige né la prova della commissione di reati da parte degli amministratori, né che i collegamenti con le organizzazioni criminali risultino da prove inconfutabili. Sono tuttavia richiesti elementi concreti, univoci e rilevanti che, insieme a circostanze di fatto, siano indicativi di un condizionamento dell’ente. In questo senso vi è ampia giurisprudenza. Assolutamente infondato è invece l’assunto secondo il quale si scioglierebbero gli enti con troppa facilità e a riprova dell’infondatezza di tale affermazione è sufficiente ripercorrere brevemente l’iter richiesto. Il provvedimento di scioglimento segue un procedimento complesso che parte dal prefetto, approda a un comitato provinciale in cui siedono rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura, viene vagliato da diversi uffici ministeriali prima di giungere sulla scrivania del ministro dell’Interno, viene deliberato dal Consiglio dei ministri e, infine, vagliato dagli uffici del Quirinale prima di essere firmato dal presidente della Repubblica. Un solo parere negativo bloccherebbe l’intera procedura. E poi sono sempre possibili i ricorsi alla giustizia amministrativa, Tar e Consiglio di Stato.

Posso affermare, per esperienza diretta, che nessun ministro politico porterebbe avanti questa procedura se solo avesse il fondato timore di trovarsi soccombente davanti all’esito di un immancabile ricorso. I provvedimenti di scioglimento quindi non sono mai assunti con superficialità, ma sono sempre il frutto di approfondimenti che richiedono mesi e sono soggetti alla valutazione di più organi.

Aggiornato il 14 settembre 2017 alle ore 15:36