Amnistia? Adesso proviamo a ragionare

Il senatore Luigi Manconi (Pd), con l’adesione di altri di vari Gruppi, ha presentato un disegno di legge costituzionale di modifica dell’articolo 79 della Costituzione relativo ad amnistia ed indulto che, così come fu modificato nel 1992, proprio nei giorni di “Mani Pulite”, oggi prevede la necessità del voto favorevole di due terzi dei componenti di ciascuna Camera per deliberare tali provvedimenti.

In una conferenza stampa, cui sono intervenuti alcuni seguaci di Marco Pannella, Manconi ha spiegato che tale iniziativa è un primo passo per la realizzazione di quanto, per un certo periodo, fu oggetto delle prediche e dei digiuni di Marco Pannella, che chiedeva “amnistia generale”.

Manconi è persona rispettabile, se non può dirsi un “garantista militante” è certo disponibile per questioni di giustizie e di diritti civili. Ha sottolineato che l’introduzione dell’altissimo quorum necessario per l’approvazione dei cosiddetti “provvedimenti di clemenza” fu il frutto delle temperie di Mani Pulite. “Pezza colorata”, in sostanza, per coprire, ma questo lo dico io, un errore fondamentale della giustizia: quello di trasformarsi in “strumento di lotta” per il quale la cattura del maggior numero di prigionieri è il “successo”.

Nelle parole di Manconi finisce invece per emergere una concezione dell’amnistia come un provvedimento coerente con una giustizia ordinaria e non a quella che si “vede oggi”: il continuo ricorso a nuove (e sempre più sbilenche e poco chiare) figure di reato, del continuo ricorso all’aumento delle pene edittali e, soprattutto, il rimedio posticcio alla “facilità” con la quale si arresta e si condanna la gente ignorando il precetto dell’accertamento della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, una delle prescrizioni più ignorate ed eluse dei nostri Codici (ma anche a fare queste analisi sono io, non Manconi).

Esatto il riferimento agli anni ed all’atmosfera di Mani Pulite. Ma reticente. Quel provvedimento fu allora non già frutto di una riflessione qualsiasi sul ricorso ad amnistie e indulti nel corso della Prima Repubblica, per evitarne l’“ingiustizia”, ma uno dei gesti di resa e di tentativo di ingraziarsi Di Pietro e compagni, garantendo loro che non si sarebbe fatta un’amnistia contro la loro mattanza giudiziaria. Un gesto che definirei di autoflagellazione e di resa della classe politica, così come quello assai più grave e nefasto dell’abolizione della necessità del voto di autorizzare le Camere per procedere contro i parlamentari.

Ma se quella sostanziale “soppressione” dell’amnistia fu, per tal motivo, un atto sbagliato e detestabile, non è detto che l’abrogazione di quel “catenaccio” sia oggi il meglio e la cosa più urgente che si possa fare. Ha detto Manconi che la modifica del 1992 “ha sottratto due misure (l’indulto e l’amnistia), lo strumento più importante, destinato a diminuire l’accumulo di cause e l’affollamento delle carceri”.

Il problema, però, non è quello di svuotare ogni tanto le carceri e gli scaffali di Procure e Tribunali. Il problema è quello di non riempirle, magari a costo di riempirle a vanvera e quello di ridurre l’esercizio dell’azione penale entro limiti consoni all’effettiva possibilità di fare effettiva giustizia. Amnistia ed indulto non sono “strumenti di giustizia”, ma piuttosto misure di gestione del fallimento della giustizia. Possono essere, infatti, tra gli atti che bisogna compiere specie come conseguenza di guasti e situazioni fallimentari provocate da una giustizia ingiusta nel momento in cui diventa manifesto che essa sia tale. Neppure, del resto, ne rappresentano propriamente un “rimedio”.

Nel momento attuale l’amnistia potrebbe avere un senso, una plausibile ragione di essere, se finalmente si stroncasse l’“uso alternativo” (cioè strumentale) della giustizia, si rinunziasse alla “giustizia di lotta”, alla pretesa dei magistrati del “controllo generale di legalità”, inteso come una funzione giurisdizionale superiore e invadente su tutti gli altri poteri, compreso quello legislativo.

Alla conferenza stampa era presente Rita Bernardini, una “fedelissima” di Pannella, che ha detto una cosa interessantissima: “Marco non si era posto il problema dello speciale quorum necessario per l’amnistia”. È una ulteriore conferma del carattere metapolitico, ma più semplicemente impolitico, ed approssimativo di quella sua battaglia. I sogni non hanno un quorum. In verità non si era posto neppure la questione dei limiti e delle condizioni, parlando di “amnistia generale”. Qualcosa di impossibile, di assurdo contro cui, qualora se ne fosse avvertita come possibile qualche concretezza delle proclamazioni, si sarebbe scagliato (e non a torto) ogni cittadino.

Il disegno di legge costituzionale è però altro, ma può essere, o quanto meno apparire, come un mezzo per cominciare a dare ragionevolezza e concretezza politica all’utopia pannelliana. Ma, ammesso che questa “traduzione” sia in linea di massima possibile, temo proprio che chi la vuole sia partito con il piede sbagliato. A parte la probabilità che il progetto resti nel cassetto, malgrado l’affermazione di Manconi che ciò sarà evitato, che proprio con la questione dell’amnistia, che serve più a coprire le magagne della giustizia che a svelarle ed evitarle, non si può partire per una riforma della giustizia e nemmeno per fronteggiare la sua bancarotta né quindi per un tentativo di dare concretezza ai sogni.

È più probabile infatti che, tornati alla “normalizzazione” dell’articolo 79 della Costituzione (cosa in sé assai difficile nelle attuali condizioni), l’amnistia sarebbe usata più o meno così come avvenne nella Prima Repubblica, per svuotare periodicamente le carceri e gli scaffali, per poterli di nuovo riempire sconsideratamente. Per non dire che, mentre l’amnistia generale poteva essere concepita solo nelle fantasie palingenetiche di Pannella, i limiti di applicabilità del “colpo di spugna” sono, poi, in sé ingiusti: lasciano sempre fuori “i reati più gravi”, che sono magari quelli “creati” dalla giurisprudenza o comunque a richiesta del Partito dei Magistrati. Reati gravi nella cui repressione sono stati compiuti gli errori più gravi, con abuso, magari, dei pentiti e della intangibilità della loro “legittimazione”.

Manconi ha, certamente in buona fede, affermato che, usato questo strumento straordinario, si dovrà poi procedere a riforme strutturali. Non credo che Manconi abbia una idea pur vaga di quali siano le necessarie riforme, ed ancor meno ce l’hanno quelli che gli facevano contorno alla conferenza stampa. Non ce l’hanno questa idea i colleghi di partito di Manconi, che mai e poi mai sfiderebbero ed oserebbero toccare il Partito del Magistrati con le sue deleterie teorie e prassi, chiave di tutta la spaventosa crisi. Per trarre le idee e le battaglie di Pannella dal loro carattere “metapolitico” e antipolitico, sembra dunque che si punti su una cattiva politica, se non sul “fumo negli occhi”. È in un decisamente “impolitico” sistema, di cui è elemento costante l’incapacità di andare a fondo in questi problemi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:57