
La riforma non è perfetta, ma i nemici hanno torto. Così titolava l’articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di mercoledì 11 maggio. Commentando il progetto di riforma, Panebianco l’ha messa tutta in politica, correttamente. Non tanto per il voto pro o contra Renzi, quanto per le valutazioni corporative che muovono molti degli oppositori alla modifica della Costituzione. Il riferimento non riguarda ovviamente i costituzionalisti dei due fronti che si limitano a formulare giudizi di coerenza o incoerenza storica e istituzionale.
Uno dei capi su cui si tenterà di muovere l’umore del corpo elettorale sarà la formazione del nuovo Senato. Matteo Renzi, da buon populista, dirà che gli italiani non dovranno più pagare lo stipendio ai 315 vecchi senatori. Gli oppositori diranno che la pattuglia dei 75 nuovi senatori regionali graverà comunque sui bilanci regionali. Renzi dirà di aver creato la nuova Camera delle regioni e degli enti locali. Gli oppositori diranno che i senatori continueranno a rappresentare soltanto i partiti che li hanno candidati. Le ragioni giuste, buone e rozze, dei due fronti si sprecheranno.
Nell’impresa di strattonare il corpo elettorale ne vedremo di tutti i colori, con un solo esito: l’innalzamento dei toni e l’ulteriore presa d’atto della difficoltà della democrazia di esprimersi, su temi così apparentemente lontani, in termini maturi e responsabili. Per questo, credo che mai come in questa occasione i cosiddetti esperti debbano assolvere un compito speciale: raccontare, spiegare per far partecipare. Dovranno spiegare soprattutto che è fuori strada chi racconta che la Costituzione non c’entra con i bisogni veri della gente. Ma, sul Senato, per capirci, che cosa si deve sapere?
Personalmente credo che il compromesso raggiunto non sia dei migliori. Avendo sotto mano il panorama delle seconde camere territoriali dei Paesi europei, si poteva fare meglio. Ma le leggi le fanno le maggioranze parlamentari, non i manuali di Diritto costituzionale. Chi sostiene il no afferma che, di fronte all’ibrido proposto, sarebbe meglio conservare il bicameralismo attuale, limpido nella sua originaria razionalità elettiva e democratica. Come se il bicameralismo perfetto vigente fosse il frutto di una scelta razionale, pensata e meditata dal costituente del ‘47. Neanche per sogno. Il bicameralismo paritario odierno è semplicemente frutto del profondo contrasto ideologico che divideva comunisti e democristiani. Rinunciando alle proprie posizioni di partenza, Dc e Pci hanno convenuto sul compromesso che vede due Camere paritarie e quasi identiche. Il senatore Fanfani per la Democrazia Cristiana, proponeva, accanto alla Camera politica, un Senato “corporato”, cioè espressione dei mestieri e delle professioni, dei rappresentanti del mondo del lavoro per intenderci. Il Pci, per parte sua, nella tradizione ideologica dell’indivisibilità della sovranità e della “volontà generale” (Rousseau e Lenin) era invece monocameralista. Nel gioco dei compromessi la Dc, incassando la soluzione bicamerale, ha rinunciato a differenziare la rappresentanza politica, mentre il Pci, incassando la duplicazione della rappresentanza politico-parlamentare, ha rinunciato al principio monocamerale. La Dc ha ottenuto, per ristoro, anche l’istituzione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel), con poteri solo consultivi. La prova che il Cnel non era una scelta meditata dei costituenti, la si riscontra oggi, con la definitiva sua soppressione, senza rimpianti da parte di nessuno.
C’è stato un compromesso ieri, c’è un compromesso oggi. Non c’è stato un progetto pensato ieri, non c’è la perfezione oggi. Questa è la politica. Niente è perfetto perché tutto è frutto del compromesso maggioritario. La soluzione bicamerale del 1947 non è, almeno nel metodo, molto più nobile della soluzione del 2016. Gli odierni oppositori del “Senato territoriale” combattono però un’altra e più significativa battaglia. Vogliono conservare il vecchio Senato elettivo, non tanto perché più democratico, quanto perché, così facendo, contrastano gli effetti di stabilizzazione propri dell’Italicum, applicabile solo all’assemblea di Montecitorio. In questo modo, conservando il potere d’interdizione del Senato, attraverso il voto di fiducia, manderanno a carte quarantotto il modello Westminster e il premierato, cioè la più rivoluzionaria riforma del sistema politico italiano dal dopoguerra a oggi.
La partita referendaria è tutta qui. Vogliamo restare affezionati ai governi deboli che conosciamo, in balia del trasformismo dei partiti? Questo è il senso del quesito referendario. Tutto il resto è folklore costituzionale o, nel peggiore dei casi, demagogia. Renzi è chiamato a dar prova che la riforma è per l’Italia, non per il Partito Democratico. Proponga pubblicamente di rivedere l’Italicum, attribuendo il premio di maggioranza alla coalizione dei partiti vincenti, invece che al partito vincitore. Così facendo, taglierà le ali a tutti coloro che osteggiano la riforma costituzionale per contrastare gli esiti “monarco-renziani” insiti nell’Italicum. La forma di governo non ricalcherà perfettamente Westminster, ma sarà più stabile ed efficiente di oggi.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03