
La modifica della Costituzione si poteva fare anche meglio. Si sarebbe potuto guardare di più, soprattutto, al rapporto tra chi governa e chi è governato, invece che puntare solo alla manutenzione dei “piani alti” del sistema. Così, si continua a dare l’idea che democrazia vuol dire elezioni, e basta, mentre il disagio diffuso del Paese richiederebbe l’invenzione di forme e metodi nuovi di “partecipazione” per tutti i cittadini.
Tant’è. Certo l’“Italia ideale” di Platone sarebbe stata disegnata diversamente. A noi invece ci tocca fare i conti con l’articolo 138 della Costituzione, che richiede maggioranze parlamentari assolute. E poi, ci tocca fare i conti con gli umori dei partiti che, a seconda delle loro contingenze, decidono di sostenere o di osteggiare la revisione costituzionale di turno. Questo canovaccio vuole che Bersani voti contro la riforma proposta da Berlusconi e Berlusconi voti contro la riforma di Renzi. E così via. Per predestinazione. La minaccia della svolta autoritaria non è stata ancora formalizzata, ma tarderà poco. Intanto c’è chi, a partire da altri pulpiti, ha già iniziato a farlo.
Parliamoci chiaro. È desolante l’Aula di Montecitorio, piena a metà, al momento del voto finale. Tutte le opposizioni l’hanno disertata, per marcare l’“effetto arena” di Walter Bagehot. Bagehot aveva presente Westminster, ma il fenomeno si adatta anche a Montecitorio, dove i partiti hanno voluto semplicemente segnare le distanze davanti all’opinione pubblica. Per il resto chi se ne frega. Chi si occupa di costituzioni ha già detto tutto, ognuno per la competenza del proprio capitolo di riflessione. I pregi e i difetti tecnici dell’impianto sono a nudo. Ci sono argomenti pro e contro la riforma. Per il grande pubblico il quesito però va presentato nel suo significato politico più profondo, che si riassume così: tra i valori dell’efficienza e della garanzia che cosa vale la pena privilegiare oggi? I costituenti del 1947, davanti allo stesso dilemma, l’hanno risolto unanimemente optando per un sistema di garanzie, anche a rischio di qualche deficit di efficienza.
È dentro questa scelta obbligata che hanno preso forma i poteri della Repubblica italiana, come li abbiamo conosciuto fino a oggi. Bicameralismo indifferenziato invece che monocameralismo sovietico e roussoviano. Regionalismo legislativo invece che centralismo romano. Governo collegiale invece che premierato unico. Governo parlamentare invece che modello presidenziale. Totale estraneità del Governo sulle nomine dei magistrati inquirenti. E poi: primato della legge e del Parlamento, in modo che Democrazia Cristiana e Partito Comunista, sia che finissero in maggioranza o all’opposizione, avrebbero potuto entrambi, su piani diversi, concorrere alla ricostruzione della rinnovata democrazia, sedendo entrambi, pur se “armati” di diverse ideologie, negli stessi scanni parlamentari. Il tutto dentro la regola aurea del proporzionalismo puro, per la formazione di tutti gli organi legislativi e non.
La centralità dei parlamenti ha dominato fino agli anni Novanta. Tutto è passato da lì, dalle assemblee parlamentari, anche la formazione dei governi, mentre gli elettori si sono limitati a conferire, col voto, quote percentuali di rappresentanza ai propri partiti ideologici, veri detentori della vita e della morte degli esecutivi: ben 62 fino al 2010, quasi uno all’anno. Con la fine del comunismo è cambiato tutto. È cambiato soprattutto il peso e il ruolo dei partiti. Possiamo continuare ad essere governati oggi con un sistema di governo disegnato per un altro mondo? Oppure il ruolo dei partiti va ridimensionato per: 1) trattare il cittadino come arbitro (Ruffilli) e 2) restituire lo scettro al Principe (Pasquino)? La riforma Renzi si colloca in questa prospettiva, nel quadro di un’Italia politica che non è più quella del 1947.
Si poteva fare di meglio e di più? Certo, ma non si può non convenire sulla necessità di ridisegnare lo Stato e il governo in modo da mettere il potere esecutivo in condizione di riequilibrare l’insieme degli altri Poteri. Serve soprattutto un rapporto diverso tra il Governo e il Parlamento, tra lo Stato e le Regioni, tra lo Stato e l’Unione europea. Chi ritiene che l’attuale assetto dei poteri vada bene per l’Italia di oggi non ha che da opporsi al referendum del prossimo autunno. Chi pensa che l’Italia necessiti di un diverso e più equilibrato esercizio dei poteri, voterà invece in favore della revisione della Costituzione.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:53