La presunta diversità a “Cinque Stelle”

Cosa resta del Movimento Cinque Stelle dopo la morte di Gianroberto Casaleggio? Sono stati in molti a porsi la domanda in queste settimane, riempiendo paginate intere ed alternando fosche previsioni a tenebrose formule dubitative. Per noi che non siamo degli abili retroscenisti pagati dai giornaloni per romanzare le cose, la risposta è semplice e tendente al banale: una buona dote elettorale, una nuova piattaforma web, un comico e tanti aspiranti leader. È innegabile che, non solo grazie all’effetto moltiplicatore della dipartita del guru, l’exploit del Movimento viva ancora il suo periodo espansivo, vuoi grazie alla confusione regnante nei partiti tradizionali al cui cospetto appaiono degli statisti, vuoi grazie alla recente entrata dei grillini nelle istituzioni che ne limita eventuali emorragie di consenso. Chiaro e logico che, se il programma continuerà ad essere solo una generica invettiva contro chi governa piuttosto che un demagogico richiamo all’onestà, qualcuno comincerà a percepire il vuoto che si cela dietro il livore anti-casta.

L’onestà è solo un precondizione utile a prendere parte alla vita pubblica e non l’elemento fondante dell’agire politico il quale si nutre di competenza, visione strategica, capacità di mediazione e coraggio. La politica a Cinque Stelle è un’abile trama di sensazioni anti-casta che, in assenza di altro, durerà fino alla comparsa del prossimo santone pronto a proclamarsi ancora più puro ed onesto. Urge una proposta, urge che la protesta diventi agire ed è proprio in questo frangente che la mancanza del burattinaio abile a tenere a freno “i guaglioni” ed a tessere tele comunicazionali diventa ancor più grave e pericolosa perché rischia di trasformarli da neofiti in schegge impazzite nelle mani (loro malgrado) dei vecchi lupi. E che siano anime belle lo si arguisce da tante cose tra cui, volendo citare l’ultima, dalla superficialità con cui costoro hanno creduto che Rousseau, la nuova piattaforma che ospiterà le attività on-line dei pentastellati, sia la vera eredità politica lasciata da Casaleggio. Il quale era un filosofo buono a vendere il nulla spacciandolo per futuro, un persuasore che teorizzava avveniristici sistemi partecipativi basati sulle nuove tecnologie contrabbandandoli per dottrine politiche. Il tutto nella speranza che il giochetto bastasse ai ragazzini e che la favola del televoto 2.0 mascherato da “Rete” desse ai suoi il coraggio necessario a sentirsi protetti nell’affrontare sfide alle quali forse non erano preparati.

Rousseau è solo uno strumento di lavoro sul quale si possono approfondire argomenti o mettere in comune best practices amministrative o dal quale si possono evincere gli umori della base. Poi questi umori bisogna saperli interpretare traducendoli in strategia politica cui tutti siano pronti ad allinearsi disciplinatamente. Cosa che, per indole e preparazione, non può fare Beppe Grillo il quale è molto abile a dire su un palco le cose che pensano altri ma di qui a fare il Casaleggio della situazione c’è un abisso.

Grillo farà da garante tenendo a freno gli egoismi finché ne sarà capace ma, non essendo dotato del carisma di Casaleggio, la deferenza verso di lui è destinata a scemare nel tempo proporzionalmente al grado di autonomia mediatica che acquisteranno i vari aspiranti capetti. Stesso ragionamento vale per Davide Casaleggio il quale, in quanto figlio del co-fondatore del Movimento, è l’erede designato nell’azienda di famiglia ma non automaticamente anche nel Movimento. Chi lo conosce lo descrive come un ragazzo deciso e schivo come il padre, ma non animato dalla stessa passione politica.

Le sue vere passioni sono l’informatica e l’azienda di famiglia che sulla gestione del web pentastellato ci ha costruito il proprio sviluppo: i consulenti pagati per gestire il meetup si dedicano anche ad altri progetti per cui, abbandonare il ramo d’azienda politico, equivarrebbe a licenziare e ridimensionarsi visto che il giochino sta in piedi grazie alla pubblicità sul blog e sui siti che il blog sponsorizza. Con molta probabilità il suo ruolo si ridurrà gradualmente a gestore dei server grillini o, se vogliamo, supporto tecnico alle decisioni politiche che pian piano verranno assunte in altra sede. In molti sono pronti a giurare che non sarà così ed intravedono nell’incontro organizzato con Virginia Raggi, all’insaputa del Direttorio, un tentativo del giovane manager di prendere il ruolo paterno. Indizio deboluccio visto che, non solo la Raggi è vicina alle posizioni di Di Battista, ma è ormai anche conclamata la spinta autonomistica del Direttorio che pretende di trattare alla pari con la Casaleggio & Associati fiutando l’apertura di un vuoto irripetibile.

Ecco quindi che la perdita del capo si trasforma in opportunità con i naturali strascichi correntisti (tanto criticati nei Partiti tradizionali) che spezzettano la catena di comando in tre tronconi che si sostituiscono al verbo di Casaleggio: da una parte i napoletani guidati da Di Maio, Fico, Ruocco e Sibilia, dall’altra i romani guidati da Di Battista, Lombardi e Raggi ed infine l’outsider Pizzarotti che guida l’ala degli esclusi. Per ora nessuno nel Direttorio (formato da Di Maio, Di Battista, Sibilia, Ruocco e Fico) ha la forza di imporsi e quindi l’equilibrio è stato assicurato da quell’esigenza di mutuo soccorso di cui tutti i componenti hanno bisogno per guardarsi le spalle da vendette, invidie e frustrazioni di coloro i quali non furono chiamati dal defunto capo a guidare il Movimento.

Ma le fughe in avanti cominciano a scorgersi all’orizzonte tanto che ad aprire le danze ci ha pensato Di Maio con l’auto candidatura alla premiership (poi smentita e subordinata alla Rete per dovere di etichetta). Marco Canestrari, ex collaboratore di Casaleggio, spiega chiaramente l’operazione di Luigi Di Maio che si è autoproclamato leader al Tg1: “L’ascesa di Di Maio, che Grillo aveva cercato di fermare, è speculare all’ascesa di Renzi e coltiva di per sé il germe del tradimento. Davvero qualcuno pensa che l’onorevole Di Maio smetterà di fare politica a 37 anni, dopo due mandati? Hanno già creato un patto e una casta di intoccabili: tutto quello contro cui Roberto ci spingeva a lottare”.

Per ora il buon Di Battista resta in scia e fa quadrato sapendo che il suo destino è momentaneamente legato alle fortune di Di Maio ma, il flop della missione in Inghilterra di quest’ultimo – che avrebbe dovuto legittimarlo come leader – e l’eventuale boom alle urne della candidata dell’ala romana Virginia Raggi, rischiano di fargli fare un balzo in avanti rispetto al più esposto (e quindi logorabile) collega napoletano. A dire la verità, la candidata a sindaco di Roma sta creando più danni che benefici viste le, diciamo così, dimenticanze presenti nel suo curriculum dal quale sono stati omessi (per ora) i rapporti professionali con Previti e con persone vicine all’area di Alemanno e Panzironi (omissioni apparentemente inutili visto che il tutto si sarebbe potuto giustificare con esigenze d’ufficio).

Più defilato Fico, l’altro uomo forte che si è ritagliato il ruolo di stratega freddo, taciturno e razionale sapendo di non poter competere in questo momento con la popolarità accumulata dagli altri due colleghi. La notte dei lunghi coltelli e dell’eredità contesa è quindi appena iniziata anche all’interno della falange pentastellata, a dimostrazione del fatto che sarà anche vero che non tutti i politici sono uguali ma sicuramente sono molto simili.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56