
Un pericoloso precedente. Doina Matei, definita dalla stampa la “killer dell’ombrello” per via della modalità (un’ombrellata in un occhio) di quell’omicidio preterintenzionale da lei commesso otto anni fa all’uscita della metro B di Roma dopo un litigio con la sua coetanea Vanessa Russo, torna in carcere e perde la libertà “a furor di popolo”.
Il tutto tramite una mirata campagna mediatica del Corriere della Sera (motivata dall’appeal di vendita di copie di storiacce come questa) e per delle foto su Facebook su un profilo con un nome falso che però qualcuno aveva evidentemente segnalato ai cronisti romani di via Solferino.
Il giudice di sorveglianza di Venezia, dove la donna si trova per scontare la pena, non se l’è sentita di andare contro le aspettative di un’opinione pubblica sempre più sobillata dai focaioli di ogni tipo, colore e tendenza. E, nello stesso giorno in cui si celebrano i funerali dello sfortunato Gianroberto Casaleggio, che per molti di costoro era un idolo, ecco la giustizia ad orologeria scattare con un tempismo perfetto.
Facciamo a capirci, o “famo a capisse” come dicono a Roma: qui non sono in questione i legittimi (anche se non bellissimi) sentimenti di odio e rancore o il desiderio di vendetta dei familiari di Vanessa Russo. Per carità: l’altra guancia la porge chi vuole e chi ci crede e soprattutto non per conto terzi. Detto questo, uno Stato che applica la giustizia seguendo il trend dei media e dei social network a me fa orrore. E anche un po’ paura.
Questa ragazza aveva avuto una pena altissima, sedici anni, per un omicidio preterintenzionale consumatosi nel quadro di intemperanze giovanili tra giovani sbandati della periferia romana. Questo ormai lo sanno tutti. A metà della pena se una persona ha dimostrato in carcere di avere svolto un percorso rieducativo la semilibertà non è un tabù: l’hanno data a terroristi e mafiosi, condannati a decine di ergastoli per omicidi premeditati, perché doveva essere negata proprio a Doina?
Le violazioni degli obblighi inerenti al regime di semilibertà, aver postato una foto al mare su Facebook e per giunta su un profilo di fantasia, non appaiono ictu oculi circostanze così gravi da far revocare il beneficio. In mezzo però c’è la campagna stampa orchestrata dal “Corriere” con pieno successo e, si immagina, con buona ricaduta di vendita di copie del giornale. Che attraversa una crisi molto profonda e che in questi giorni, dopo che la famiglia Agnelli si è sfilata, è letteralmente in mano, se non in pegno, delle maggiori banche italiane. In vendita al miglior offerente. Che potrebbe essere Urbano Cairo, altri soci permettendo. In mezzo però c’è anche lo Stato, impersonato da un magistrato che non se la sente, nel caso di fattispecie, di andare contro il “senso comune di vendetta” che anima ormai la politica e la società italiana.
Di questo passo tornare alla pena di morte, che già viene richiesta a gran voce da tanti campioni di questo cinico populismo nostrano, sarà una tappa breve. Di quelle che si bruciano. Per carità, tutto legittimo, ma le cose vanno chiamate con il proprio nome. E i magistrati devono sapersi prendere, oltre alle ferie e al mega-stipendio, anche responsabilità difficili. Come quella di non soddisfare la voglia di forca che promana dal popolo. Sennò abbiamo poco da invidiare, in negativo, all’Egitto di al-Sisi con cui facciamo la voce grossa sui diritti umani (con l’Iran no perché ci fa fare affari a miliardi). Ma l’Egitto, al netto della dittatura e del tragico caso di Giulio Regeni, in quanto a sistema giudiziario non sembra essere tanto peggiore del nostro.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03