L’Italicum e l’Italia

Il proporzionalismo disegnato dall’Italicum, con soglia di sbarramento al 3 per cento, i capilisti designati dagli apparati di partito e il premio di maggioranza riconosciuto al partito che, al secondo turno, prende anche un solo voto in più degli altri, non può garantire il giusto equilibrio tra le esigenze di rappresentanza del corpo elettorale e il bisogno di governabilità dell’Italia di oggi.

La stabilità dei governi e la giusta rappresentatività del sistema politico sono due facce della stessa medaglia. Governare senza rappresentatività è pericoloso, così come rischioso è un sistema rappresentativo incapace di garantire le condizioni minime di governabilità.

Nella prima Repubblica, dove i governi democristiani privilegiavano la consociazione, hanno prevalso le esigenze inclusive. Una scelta obbligata nell’era del compromesso armato tra Democrazia Cristina e Partito Comunista Italiano. Una scelta che, tuttavia, stiamo pagando e pagheremo per molti decenni, per una serie di conseguenze negative, tra cui: lo sfondamento del bilancio dello Stato, il gigantismo del deficit e del debito pubblico e la messa sotto tutela da parte degli organismi economico-finanziari della Ue.

Oggi è un’altra storia, siamo obbligati a pretendere un Governo che governi, anche a scapito di una minore capacità rappresentativa, per fronteggiare tutte le emergenze che incombono. Per questo, sia che si tratti di rivedere la Costituzione, o semplicemente di delineare il sistema elettorale della Camera, siamo anche disposti a sopportare qualche deficit di rappresentanza, in cambio di governabilità. Tuttavia, nell’ultimo anno qualcosa è cambiato nel panorama politico, imponendo la revisione di alcune scelte, non più compatibili.

Quando nel 2013 si è messo mano all’Italicum, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi intendevano realizzare il modello Westminster, dove chi vince, anche per un solo voto governa, e chi perde, fa l’opposizione costruttiva. Ciò sulla base di un sistema bipartitico in cui, secondo la tradizionale contrapposizione destra-sinistra, conservatori-progressisti, popolari-socialisti, il partito vincente governa per l’intera legislatura. Un’esigenza legittima questa, condivisa allora da gran parte dei partiti italiani.

In realtà, già nel 2013 lo scenario partitico riscontrava una distribuzione del consenso elettorale su tre poli, con il Partito Democratico al 25,4 per cento, il Popolo della Libertà al 21,6 per cento ed il Movimento 5 Stelle al 25,5 per cento. Lì però il bipolarismo classico destra-sinistra era ancora ben delineato, perché il Movimento 5 Stelle si mostrava vocato ad assolvere solo un ruolo di protesta, senza alcuna pretesa di governo. La Lega poi non aveva ancora intercettato la vocazione lepenista.

Una serie di ragioni, tra cui le disgrazie giudiziarie di Berlusconi, la conseguente disintegrazione dell’area moderata di centro-destra, unitamente all’abile guida del duo Grillo-Casaleggio, hanno contribuito a fare del M5s un vero e proprio partito con ambizioni di governo. Da questo momento, i presupposti politici sottostanti alle scelte bipartitiche del 2013, sono evaporati. Del resto i sistemi elettorali non sono mai avulsi dalla politica. Per questo, si deve prendere atto che oggi siamo nel bel mezzo di un vero e proprio “tripartitismo”, con un preteso ruolo egemone della Lega sul versante della destra-destra. A leggere le intenzioni di voto dei cittadini che saranno chiamati ad eleggere il Comune di Roma, questo quadro si consolida. Nessun candidato sindaco otterrà la maggioranza assoluta al primo turno e il ballottaggio vedrà lo scontro tra Pd e M5s.

Un’analoga tendenza si riscontra guardando le intenzioni di voto, rilevate sull’intero territorio nazionale alla fine del mese di marzo. Se si rinnovasse oggi la Camera dei Deputati, il Pd conseguirebbe un consenso attorno al 33 per cento, M5s 25 per cento, Lega 14,2 per cento, Fi 12,5 per cento, Fdi 4 per cento, Ncd Udc 2,5 per cento. Uno scenario totalmente rivoluzionato rispetto al 2013, soprattutto per un fatto: l’inesistenza partitica e politica dell’area moderata di centro-destra, incapace di porsi come antagonista di Governo al partito di Renzi.

Si può prescindere, nell’attuale contesto interno ed internazionale, da un competitore politico che invece, in tutti i Paesi d’Europa, interpreta vasti settori di elettorato, assolve una funzione di contenimento della destra populista ed è asse portante del Ppe nell’ambito del Parlamento europeo? Rebus sic stantibus è molto alta la possibilità che, di fronte a un’alternativa di secondo turno Pd-M5s, l’elettorato moderato italiano possa continuare ad inseguire, così come per tradizione, la sola opzione di alternativa possibile alla sinistra, privilegiando l’M5s (modello Parma), nonostante l’assoluta ambiguità della collocazione europea ed internazionale di questo Movimento.

Il bipartitismo trova la giusta collocazione nei sistemi dove è radicato il senso di appartenenza ad un’unica, identitaria, comunità nazionale, cioè nei sistemi stabilizzati, inclusivi, con un alto grado di omogeneità politica e sociale. L’Italia si può annoverare tra questi? Pare proprio di no. In Gran Bretagna chi vince governa. Chi perde non va sulle barricate ma si prepara a governare secondo la migliore tradizione della Opposition of your Majesty. In Gran Bretagna e nei Paesi maturi i movimenti populisti e oltranzisti, anche se non sono marginali, sono collocati nella marginalità. Da noi, invece, il Movimento 5 Stelle e la Lega danno prova di poter competere e concorrere assieme, per il comune di Roma come per il governo dell’Italia. Da noi il bipartitismo non esiste, per questo anche l’Italicum non può più resistere, perché già invecchiato, prima di aver potuto compiere i primi passi.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 16:59