Italicum: le simmetrie di destra e sinistra

Siamo al redde rationem nel centrodestra. Nel centrosinistra non ci siamo ancora. O meglio, nel centrodestra la resa dei conti è conclamata, nel centrosinistra continua ad essere minacciata, ma è strisciante, carsica, anche da parte di Massimo D’Alema. Del resto qui c’è di mezzo il governo del Paese.

Le due contese sono simmetriche e parallele per un’evidente ragione. Entrambe puntano alla decapitazione del leader. Nel centrodestra si vuole ufficializzare la fine politica di Silvio Berlusconi e di Forza Italia, asse centrale della coalizione di riferimento per più di vent’anni. Nel centrosinistra si tratta di azzoppare il capo del Governo, Matteo Renzi.

La competizione mostra anche un’altra curiosa analogia: la propensione ad accentuare, nel contrasto, le connotazioni più radicali dei due poli, con toni più marcatamente antieuropei, nell’area Salvini-Meloni, e più marcatamente libertari, nell’area Bersani-Speranza, ignari della raccomandazione di Duverger per cui sono proprio le intonazioni grigie delle politiche di centro che fanno conseguire il consenso maggioritario, utile per governare. Lo scontro in atto è percepito nitidamente, da chi guarda, come uno scontro di puro potere. Tuttavia, le sue conseguenze si ripercuoteranno anche sul piano più strettamente politico e degli schieramenti.

I due fronti, con pari irresponsabilità, sottovalutano un dato di fatto, cioè quello di non essere i soli attori dell’agone politico, dove il movimento di Grillo ha tutto da guadagnare dallo scontro letale tra i competitori tradizionali. Accanto alle similitudini c’è una macroscopica differenza. A sinistra, lo scontro è tutto interno al Partito Democratico. A destra, la contesa riguarda invece più partiti, che competono per la conquista del ruolo di guida della coalizione. La resistenza di Berlusconi nella difesa di Guido Bertolaso a sindaco di Roma è significativa, non tanto per le sorti del Comune, quanto per i destini dell’intero centrodestra italiano. Infatti il cedimento di Berlusconi e la marginalizzazione di Forza Italia segnerebbero la fine del centrodestra, come lo abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni, cioè come aggregazione capace di competere e vincere nei confronti della sinistra. In questo ipotizzato scenario, infatti, il Partito Democratico resterebbe l’unico competitore attendibile, vocato alla missione di contrastare i populismi imperanti e concorrenti, di tipo lepenista e di tipo pentastellato. Non è immaginabile che Salvini e Meloni possano ignorare questo destino. È però ipotizzabile che abbiano delineato un orizzonte temporale e politico minimale, destinato ad acquisire facile consenso, in un lasso di tempo relativamente breve, come dimostra la fulminea apparizione di Afd in Germania. Questa ri-delineazione delle sembianze della destra italiana appare in totale distonia rispetto alle ambizioni e ai tempi di cui dispone Berlusconi.

Alla maggioranza degli elettori di centrodestra, cui Berlusconi guarda, non interessa infatti un percorso di medio periodo che regali al lepenismo italiano anche il 25 o 30 per cento dei consensi. L’elettorato di centrodestra non saprebbe che farsene di una pattuglia di 150 o 200 deputati politicamente ininfluenti nel delineare le sorti del Paese. Berlusconi è di fronte a una scelta obbligata: riacquistare la guida della coalizione per vincere, oppure correre da solo, concorrendo a costruire una destra repubblicana di tipo francese, capace di giovarsi, all’occorrenza, delle desistenze della sinistra democratica, oppure obbligata a sostenere, all’occorrenza, lo stesso Pd di Matteo Renzi.

Lo scenario non è inverosimile. Serve però l’accantonamento dell’Italicum, ormai invocato da molte parti. Pensato per un sistema di partiti che non c’è più, ne trarrebbe vantaggio lo stesso referendum sulla riforma costituzionale. Soprattutto ne trarrebbe vantaggio l’Italia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:52