
Ho voluto partecipare mercoledì scorso alla presentazione del libro di Simone Nastasi, edito da Bonfirraro, “Cuffaro, tutta un’altra storia”, alla Libreria Montecitorio, malgrado non poche difficoltà, che ho dovuto affrontare.
Intervenendo l’altra sera a questa presentazione ho espresso senza mezzi termini, ma non so se con la necessaria capacità per far valere in buona sostanza una tesi che si direbbe tutti vogliano eludere, il mio convincimento che l’aggressione giudiziaria a Cuffaro, il ricorso ai più spericolati strumenti pseudo-giuridici, il disinvolto uso in suo danno di risibili metodi di “estrazione” della prova, è stato un atto, un “episodio” di lotta politica, secondo una “strategia di lotta” e non in applicazione, per quanto balorda, del diritto. Ed ho espresso il mio convincimento del valore “strategico” del processo a Cuffaro, nella vasta ed articolata strategia della “rivoluzione per via giudiziaria”. Ho insomma insistito ancora una volta, magari fino alla noia, sulle mie tesi circa il “Partito dei Magistrati” e sul suo ruolo nella demolizione dello stato di diritto e delle libere istituzioni nel nostro Paese.
Ma, ho già detto e scritto, l’atteggiamento di Cuffaro, che ancora una volta non ha voluto “parlare del processo”, riuscendo, tuttavia a dirne assai di più di tutti noi, ha qualcosa di singolare, di eccezionale. Cuffaro ha parlato del carcere, dell’accettazione, se non della condanna, della sua sorte giudiziaria (che oggi è termine più appropriato). E, soprattutto, ha parlato del carcere come esperienza di un dialogo con se stesso. Può apparire questa la prova di un ripiegamento esistenzialista, notevolissimo in un uomo politico, ma tale da confermare l’abbandono della politica anche come scelta di vita?
Sentendo Cuffaro (che l’altra sera ha lasciato andare due affermazioni “sono ancora democristiano” e “la politica è impegno che non abbandono e non rinnego”), mi sono reso conto che quel suo “dialogo con se stesso” che il carcere gli ha consentito, e che considera l’aspetto positivo della tragedia, è in realtà ciò che è mancato alla classe politica italiana, fatta oggetto di un volgare assalto “antipolitico” e di una “purga” pseudo- giudiziaria, senza nemmeno la maschera di un’ideologia staliniana. Di fronte alle raffiche di processi, di avvisi di garanzia, di arresti, di condanne e, magari, di mezze assoluzioni, la classe politica si è anche moralmente dissolta, si è sottratta ad un doveroso “dialogo con se stessa”, ha cercato (certo, giustamente) di ridurre al minimo i danni, ha (raramente) gridato la propria innocenza, ha, invece, riconosciuto, ipocritamente e troppo facilmente, l’innocenza di Pm e di giudici, ha evitato accuratamente di affrontare gli aspetti più propriamente etici del cataclisma politico.
Eppure in quella “prova generale” della oramai prossima mattanza dei “politici”, che il Partito dei Magistrati, aveva offerto facendo esperimento sulla pelle di uno dei più conosciuti e popolari personaggi italiani, prudentemente scelto per la sua mancanza del “potere” che, in genere si aggiunge alla notorietà, mi riferisco al linciaggio di Enzo Tortora, questi aveva chiuso la sua personale difesa proprio ponendo la questione della “innocenza” (cioè, in alternativa, della colpevolezza) dei suoi giudici.
Enzo Tortora seppe affrontare la mortale aggressione in suo danno (per prova… ma mortale) con grande dignità, mettendo tutta l’assurdità della vicenda, la sua e quella dei suoi persecutori, sul piano etico. E di lì la riflessione, la sua ricerca di verità, lo portò a vedere e vivere, giustamente, ed, aggiungerei, “generosamente”, la sua vicenda sul piano politico. Un dono che Tortora ci fece, che fece al nostro Paese, alla sua classe politica, di cui nessuno, dico nessuno, seppe fare uso adeguato. Cuffaro credo abbia fatto un percorso ideale inverso. Dall’aggressione politica subìta (che non può non aver avvertito subito come tale) è passato a quel “dialogo con se stesso” di natura essenzialmente etica. Ma che è anch’esso “politico”, e che tale si riconosce quando si avverte che esso è ciò che manca, nel suo complesso, alla politica dei nostri travagliati giorni. Anche a lui, dunque dobbiamo gratitudine. E non dobbiamo ripetere la sciagurata distrazione con cui fu accolto “l’avvertimento” del caso Tortora.
Grazie, dunque Cuffaro. E, grazie Simone Nastasi, grazie Bonfirraro.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:04