
Perché i sindacati oggi ci appaiono come un mondo conservatore, resistente e ancorato al passato? Le moderne società non hanno forse bisogno di forme che aggreghino i lavoratori che fornisca loro servizi e che li rappresenti?
Ancora una volta siamo di fronte ad un fenomeno culturale: il sindacato è infatti oggi l’espressione delle sue radici culturali di ieri. L’affermazione e il consolidamento del sindacato è avvenuta negli anni Cinquanta e Sessanta quando ha contribuito senza dubbio a migliorare le condizioni dei lavoratori e anche a stimolare la crescita economica. Il problema sta nel fatto che il contesto è oggi profondamente cambiato. Nei momenti di turbolenta crescita economica infatti è prioritario, per i lavoratori, ripartire la ricchezza e secondario preoccuparsi della sua generazione. Il valore viene creato da un sistema in espansione. Si tratta solo di stabilire come viene diviso. In questo contesto le istanze sociali nel mondo del lavoro sono necessariamente legate ad una sorta di contrapposizione che può sfociare anche in duri scontri. L’arma dello sciopero è peraltro efficace perché reca un danno consistente, in quanto può impedire di soddisfare una domanda di prodotti che permane sostenuta. Le lotte operaie sono state addirittura utili anche per sostenere la domanda interna, attraverso una diversa ripartizione del valore, che ha diffuso benessere ed è stata funzionale allo stesso capitalismo.
Se applichiamo però una politica sindacale spartitoria in un momento in cui vi è contrazione economica e il problema è invece quello della generazione di nuova ricchezza, otteniamo le storture che sono sotto i nostri occhi e che portano a ritenere il sindacato inutile o dannoso per l’intera società.
Quando un’impresa (fatta di un sistema imprenditoriale, organizzazione, esperienze, cultura e relazioni con clienti, fornitori, fisco, territorio e lavoratori) sparisce, non sparisce solo un pezzo di essa (il cosiddetto padrone), ma sparisce tutto il complesso di interessi di cui l’azienda rappresenta il punto nodale. Il danno sociale è enorme.
Se il sindacato, nei momenti economici favorevoli, può e deve avere (nell’interesse di tutti) un atteggiamento orientato alla contrapposizione in funzione spartitoria, potendosi disinteressare di come il valore viene generato, in periodi in cui occorre generare nuova ricchezza è esattamente l’opposto. In simili momenti l’interesse dei lavoratori è orientato al come si possa concorrere al rilancio e al rinnovamento dell’azienda: dalla logica spartitoria si passa a una logica di sviluppo. Le oscillazioni della domanda, il sorgere di opportunità conseguenti all’apertura di nuovi mercati, il modo di superare un momento di crisi o come garantire l’esecuzione di una commessa non sono, in periodi come quello che viviamo, semplicemente un problema del management, ma riguardano l’insieme dell’azienda e anche e soprattutto chi ci lavora.
I problemi non sono solo di una parte (“saranno ben fatti dell’imprenditore”) ma di entrambe e il ruolo del sindacato, in questa situazione, è quello di diventare propositivo e assumersi responsabilità nel rilancio dell’impresa favorendo nuove e più flessibili forme di gestione ed esecuzione del lavoro. Ancora una volta suggerimenti ci vengono dalla Germania, ad esempio con i molti casi che abbiamo osservato nel settore metalmeccanico. È questo il salto culturale che anche l’Italia si aspetta e anche un’occasione storica di rinnovamento per il sindacato.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:08