
I fatti. Circa sette anni or sono, Mario Ciancio, editore e proprietario de “La Sicilia”, viene accusato di concorso esterno in associazione mafiosa: da qui, indagini, sequestri di ingenti somme, accertamenti bancari, insomma tutto il rosario processuale di casi del genere. Un vero calvario.
Inaspettatamente, poche settimane fa, il giudice dell’udienza preliminare, Gaetana Bernabò Distefano, smentendo la Procura che ne aveva chiesto il rinvio a giudizio, proscioglie Ciancio affermando nella motivazione che il concorso esterno in associazione mafiosa è reato dai tratti non sufficientemente definiti e che se in astratto esso potrebbe essere pure ipotizzato, in concreto non è possibile utilizzare questa fattispecie in quanto non espressamente prevista dal codice penale e perciò eccessivamente sfumata nei suoi tratti peculiari. Apriti cielo! Sgomento della stampa benpensante, polemiche fra giustizialisti e garantisti, interrogazioni parlamentari.
Ma due fatti si pongono all’attenzione in modo particolare. Innanzitutto, il dottor Nunzio Sarpietro, capo dell’ufficio dei Gip di Catania, ha subito tenuto a prendere le distanze dalla Distefano, precisando che nel caso in specie si trattava di una decisione del tutto autonoma e personale della collega, per nulla condivisa né da lui né da altri magistrati. E dunque si deve dire che la decisione della Distefano è tale da esigere se ne prendano le distanze. Perché? Che cosa si teme? Si teme una conseguenza negativa? E quale, se è lecito saperlo? Che poi affermare che quella decisione è autonoma e personale della Distefano rientri nell’alveo delle ovvietà è cosa scontata. Come si voleva fosse? Non autonoma e non personale? Concordata forse? E con chi, di grazia?
In seconda battuta, giunge notizia che la Commissione parlamentare antimafia ha convocato per una data prossima la Distefano. Ma cosa potrà mai chiederle? Vorrà forse conto e ragione della sua decisione? Vorrà chiederle come mai ritiene che il concorso esterno non possa essere considerato un reato come tutti gli altri previsti e puniti nel codice penale? Vorrà sapere come e perché ha mandato prosciolto il dottor Ciancio? Tutte cose che non ci sarebbe bisogno di chiedere per il semplice motivo che stanno scritte a chiare lettere nelle 180 pagine del provvedimento redatto in modo accurato dalla Distefano.
E come mai il Consiglio Superiore della Magistratura, di solito zelante e solerte nell’aprire fascicoli a tutela di magistrati finiti nell’occhio della politica, in questa caso brilla solo per il suo assordante silenzio? Non sente il bisogno il Csm di “tutelare” la Distefano da quella che pare proprio un’indebita ingerenza di un organismo politico - quale indubbiamente è la commissione parlamentare antimafia - che la convoca allo scopo di sapere cose che tutti possono sapere leggendo il provvedimento? E come mai non sente il Csm questa esigenza?
La triste impressione è invece che l’iniziativa della Commissione intenda soltanto esercitare una sorta di pressione, tanto indebita quanto istituzionalmente infondata, su un giudice che ha pronunciato attraverso un suo provvedimento una verità di solare evidenza, del resto già fatta propria da eminenti giuristi: vale a dire che il concorso esterno in associazione mafiosa, non essendo espressamente previsto dal codice penale, non è un reato in senso proprio da cui si possa essere chiamati a difendersi, e per cui, tanto più, si possa essere condannati.
Insomma, il concorso esterno null’altro è se non una vera aberrazione giuridica. Ecco perché Ciancio è stato giustamente prosciolto. Solo che ora bisogna spiegarlo a Contrada, a Dell’Utri ed a tutti coloro che si son già fatti anni di carcere in forza di un reato che semplicemente non esiste. E non sarà facile.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:11