Von Savigny e il   voto segreto di Grasso

È difficile trovare valide ragioni a favore degli argomenti che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha sposato per negare il voto segreto sulle unioni civili. Oggi riparte la discussione. Il dilemma ripropone lo scontro e, in assenza di un auspicabile accordo tra le parti, la contesa sarà ancora più acida. Non so quanto consapevoli siano i senatori della repubblica sulla delicatezza della questione. È sperabile che lo siano un po’ più di tanti conduttori televisivi che, con le certezze in tasca, scodellano davanti a chi osserva cercando di capire, sentenze tetragone, in nome della trasparenza e della modernità, rispetto al vecchiume dell’istituto del matrimonio.

Riassumo la questione. Le “unioni civili” non sono espressamente citate tra i diritti che il regolamento del Senato consente di trattare con il voto segreto (tra essi rientra però l’adozione del figliastro). Una previsione di tal genere era materialmente impossibile, considerato che il regolamento del Senato risale al 1988. Con questa premessa, come può dimenticare la seconda autorità dello Stato che l’interpretazione letterale delle norme è solo uno dei possibili modi con cui s’interpreta il regolamento? Si sa che il ricorso al dato letterale non è la sola interpretazione possibile. Si sa anche che proprio utilizzando l’interpretazione storica, finalistica e analogica, si sono costruite (e si costruiscono) le libertà. Cosa facciamo adesso, ci ancoriamo alla lettera della regolamento del Senato che congela l’esistente? Friedrich Carl von Savigny non sarebbe d’accordo.

Per escludere le unioni civili e le unioni di fatto dall’applicazione dell’articolo 113 del regolamento del Senato il presidente Grasso constata che, mentre matrimonio, diritti della famiglia, tutela dei figli e protezione della maternità, trovano posto negli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, le unioni civili e le unioni di fatto sono collocate in un’altra parte della Costituzione, nell’articolo 2. Con questa lettura, che si vuole sorretta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, sfugge però che anche il matrimonio è ricompreso nell’articolo 2 della Costituzione, in quanto “formazione sociale”.

Allora? Se il matrimonio, che è una formazione sociale, rientra tra le materie a voto segreto, perché mai le unioni civili e le unioni di fatto, anch’esse formazioni sociali, ne dovrebbero essere escluse? Il ragionamento del presidente Grasso è semplice: il regolamento del Senato non le cita nell’articolo 113. L’interpretazione, da qualsiasi parte la si guardi, assunta tra l’altro in totale solitudine nonostante la possibilità di sentire la Conferenza dei presidenti, pur se comprensibile nella logica della competizione parlamentare, non è sostenibile sul piano della corretta ermeneutica giuridica.

Il Senato, nel 1988, non conosceva le unioni civili, né poteva conoscerle, dunque non le ha citate, perché non erano pensabili né ipotizzabili. Oggi sappiamo, perché ce l’ha detto la Corte, che unioni civili, unioni di fatto e unioni matrimoniali rientrano tutte nell’alveo dell’articolo 2, tra le “formazioni sociali”. Come si fa a non prendere atto che il Senato nel 1988 minus dixit lex quam voluit, come si direbbe nell’ortodossia giuridica? Con queste tecniche interpretative si è formato, ad esempio, il common law anglo-americano. Non è poco.

Noi invece santifichiamo la lettera del regolamento, imbalsamiamo la lettera e devalorizziamo la dignità complessiva dell’insieme delle “formazioni sociali”. Finiamo anche per svilire, se guardiamo bene, i nuovi diritti tanto proclamati. Contrastiamo anche “la modernità” tanto sbandierata, perché c’incamminiamo su un sentiero retrogrado, da dottrina della “porta chiusa”.

Fino agli anni Ottanta, la votazione finale su ogni legge avveniva sempre per scrutinio segreto, secondo una prassi risalente allo Statuto Albertino. Un’aberrazione, che ha minato la continuità dei governi e la stessa stabilità della Repubblica. Le riforme degli anni Ottanta sono state una benedizione. Ma, la possibile soppressione dell’adozione del figliastro, tramite voto segreto, non avrebbe nessuna conseguenza costituzionale sul governo. Non ci sono dubbi che la democrazia è trasparenza. Ma, quando ci sono di mezzo i diritti civili, assieme alla trasparenza conta anche la salvaguardia della libertà e della dignità, almeno di quei parlamentari che ce l’hanno. Se ne dovrebbero fare una ragione i predicatori dei programmi d’informazione politica (si fa per dire). Sostengono che ciò che conta è la trasparenza nei confronti degli elettori. Non si sono accorti che in questo caso la trasparenza è invocata soprattutto nei confronti del partito democratico.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58