
Il libro “Tecnica postmoderna del colpo di Stato: magistrati e giornalisti” (ed. Spirali-Vel) di Arturo Diaconale è uscito nel 1995. È forse probabile che soggettisti, sceneggiatori, ideatori, registi di “1992” non lo conoscano. È certamente impossibile che non gli abbia riservato almeno uno sguardo il buon Enrico Mentana. Ecco perché il vero caso della fiction “1992”, ritrasmessa in chiaro da La7 da venerdì scorso, non sta nella modestissima sua fattura e neppure nel complesso del sia pur sommario dibattito che ne è seguito. Forse neppure nel ritorno in video dell’ex eroe dei due mondi, Tonino Di Pietro che, pure, nulla può aggiungere, semmai precisare e scusandosi, a proposito di Tangentopoli e alla sua personale gestione da Pubblico ministero.
No, se ci si fa un po’ di attenzione, il clou, il caso, è la multiformità, la poliedricità degna di Zelig del direttore del Tg7, già patron assoluto del Tg5, e ancor prima al Tg2. Enrico “Chicco” Mentana doveva mostrarsi - almeno per noi che lo consideriamo uno dei più capaci e modernizzanti direttori televisivi, in grado di non aver bisogno di nessun passaporto di professionalità per passare il confine dalla Prima alla Seconda Repubblica - ebbene Chicco doveva essere, presentando quella riciclata fiction, la vera novità, la ragione vera di rivederla. Che cosa ci induceva a credere a una simile ipotesi? Semplice: l’obbligatorietà del controcanto, la rilettura critica di quel tragico periodo, la riflessione anche autocritica sulla gestione della vicenda che ammazzò la Prima Repubblica e i suoi storici partiti.
Al contrario, il direttore ha smesso gli abiti del conduttore, ha abbandonato la zona franca della neutralità informativa, sia pure con le necessarie provocazioni (oltre allo storico Pm c’erano Bobo Craxi, Feltri e Gori) e ha indossato, speriamo pro tempore, la toga del Pm. Si capiva, comunque, che stava recitando una parte, ma non è stata una recita flaccida, smorta, non convinta, ma, al contrario, ficcante, rapida, scattante. E incalzante, ma non verso Di Pietro, ma verso Bobo Craxi che sul piano politico si è difeso al meglio. Ovviamente Chicco è libero di recitare qualsiasi ruolo in commedia e tragedia, proprio perché conosce il suo mestiere. Lo sa, ma con qualche vistosa omissione, o dimenticanza, che speriamo venga risolta nelle prossime puntate nelle quali, per fortuna, si potrà fare zapping sulla pretestuosa fiction la cui mediocrità non è inferiore all’assenza di impatto narrativo con un coacervo di vicende altrettanto confuse dove è persino difficile capire chi e cosa vuole davvero narrare. E ho detto tutto su questo serial.
Le dimenticanze. La prima ed essenziale è di non ricordare gli scritti ormai storici a proposito di Tangentopoli, la cosiddetta rivoluzione epocale che avrebbe dovuto cambiare il Paese. Il sopra citato saggio del nostro direttore a proposito di quella che lui, per primo, definì come la prova imbattibile del circo o circuito mediatico giudiziario che precipitò il sistema politico democratico della Prima Repubblica nelle fiamme distruttrici delle toghe alleate con i mass media. Il lungo saggio di Barbara Spinelli, non sospettata di alcun destrismo, dedicato alla pavidità, alla codardia dei partiti di allora, a cominciare dal Pci-Pds rispetto ai coraggiosi, storici interventi di Craxi in Parlamento e al silenzio colpevole che ne seguì. Gli interventi su “Il Mattino” di un fuoriclasse (proveniente dal “Manifesto”) come Frank Cimini che nel suo lavoro day-by-day mise a fuoco il procedere di un’inchiesta a base non soltanto di arresti finalizzati alle confessioni più o meno sincere, ma anche e soprattutto di salvataggi clamorosi sia politici, il Pci-Pds, che economici, come i “padroni dei giornali” letteralmente miracolati. Salvataggi dimostratisi essenziali come sponda decisiva per l’inchiesta del secolo e dei suoi sistemi. E non parlo degli ormai storici e inconfutabili libri di Filippo Facci che della figura di Antonio Di Pietro, di colui che aveva esordito nel febbraio 1992 giurando che “non guarderemo in faccia a nessuno!” ci ha lasciato un ritratto degno, per l’appunto, di un giornalismo all’altezza della sua alta missione: di fare da controcanto al potere vero, anche soprattutto quello di una magistratura che da allora ha occupato i primissimi posti, se non il primo, al “governo” del Paese, soppiantando i partiti.
Quanta smemoratezza e, soprattutto, quanti silenzi assordanti sol che si pensi al miliardo (o due) portato ai piani alti in ascensore da Gardini nella valigetta a Botteghe Oscure, senza “fermarsi in portineria” come incautamente s’è lasciato scappare Di Pietro a proposito dell’indagine su quel partito, rimasto immacolato (miracolato) perché al suo vertice non fu mai applicato il teorema del “non poteva non sapere, nemmeno nel clamoroso caso, non meno miliardario di Greganti, per cui la Titti Parenti, per soprammercato, fu allontanata dal pool.
E che dire di Romiti, Ad di una Fiat padrona de “La Stampa” e del “Corriere”, accolto all’inizio dell’inchiesta da un pedissequo pool cui si presentò con smaglianti sorrisi e con in mano una smilza cartelletta contenente, si dice, un sommario elenco di finanziamenti “in nero” su cui nessuna indagine è stata poi svolta dal leggendario eroe delle manette. E potremmo andare avanti nel rosario delle omissioni che hanno pesato in negativo, e ce ne dispiace, persino per Chicco. Speriamo, almeno, che si ricordi di quella vera e propria lapide dedicata recentemente da Francesco Saverio Borrelli alla leggendaria inchiesta che lo vide inflessibile Procuratore capo: “Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale”. Sic transit...
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:47