Severino, una Consulta moralista per tenere fuori gioco il Cav

Una sentenza moralista, che fa a pugni con la logica prima che con la Costituzione. E dove i princìpi di “buon andamento della Pubblica amministrazione” (articolo 97 della Costituzione) e di “lealtà alla Repubblica” (articolo 54) assurgono a valori assoluti. Sopra quelli dell’individuo, come in ogni buono Stato da socialismo reale. E quel che è peggio prevalgono sullo stato di diritto. E su princìpi cardine da Giustiniano in poi, come la non retroattività delle norme, penali e non. Per tacere del vulnus che una legge compie facendo decadere un eletto.

Tutte garanzie implicitamente ed esplicitamente tutelate anche dai primi articoli della stessa Costituzione, quelli teoricamente intoccabili. Per questo la norma voluta dalla Severino (all’epoca del Governo Monti), di cui la Corte costituzionale asserisce apoditticamente il carattere “non sanzionatorio”, non sarebbe incostituzionale. E per questo non possono giovarsene tanto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, quanto l’attuale presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Ma soprattutto, vera ragione inconfessabile della sentenza n. 236 del 2015, i cui motivi sono stati depositati giovedì ufficialmente nella cancelleria della Corte costituzionale (giudice redattore Daria de Pretis, nominata alla Consulta da Napolitano il 18 ottobre del 2014), così si avrà la certezza che Silvio Berlusconi non potrà facilmente rientrare in politica. Dovrebbe infatti aspettare la riabilitazione, unica possibilità per rientrare dalla decadenza automatica, e con tutti i processi in corso... “campa cavallo”.

Come si accennava, l’intera sentenza appare pervasa di moralismo come nel passaggio che fa riferimento alla “credibilità della Pubblica amministrazione”. Chi la stabilisce questa credibilità? E come? Con un automatismo? Anche la Consulta in pratica ha deciso di chinarsi al burocratismo diffuso che ha sostituito lo stato di diritto in Italia. Secondo la de Pretis, cui è toccato in sorte l’amaro calice di firmare questa cosa, “di fronte a una grave situazione di illegalità nella Pubblica amministrazione, infatti, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto qui interessa, contro la Pubblica amministrazione) susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un “inquinamento” dell’amministrazione e per garantire la “credibilità” dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’”ombra” gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera”.

La citazione, infilata alla “come capita” nei motivi della sentenza, è a sua volta tratta pari pari da un sentenza del 1999, la n. 206 per la precisione. Che però aveva l’unico torto di prendere in esame le doglianze relative alla sospensione cautelare di un professore dall’esercizio della professione dopo il rinvio a giudizio per corruzione e per concorso esterno in associazione mafiosa. Un eletto dal popolo è paragonabile ad un qualsiasi impiegato della Pubblica amministrazione? Un’analogia tirata per i capelli e vecchia di oltre 15 anni. Bella maniera di applicare la Costituzione, interpretandola per i “nemici”.

 

@buffadimitri

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 14:39