C’era da aspettarselo. Gli esperti della Dgse (Direction générale de la sécurité extérieure) e della Dcri (Direction centrale du renseignement intérieur), i servizi di intelligence e sicurezza francesi avevano avvertito il presidente Hollande e il Governo di Parigi che gli attentati del gennaio scorso non sarebbero stati gli ultimi e che i terroristi avrebbero preso di nuovo di mira l’esagono. Nel settembre del 2014, d’altronde, Abu Mohammad al-Adnani, portavoce e leader anziano dell’Isis, canale principale del califfato per la divulgazione di messaggi ufficiali, sul quale gli Stati Uniti hanno messo una taglia come terrorista globale, aveva ordinato a tutti i jihadisti, in un messaggio web, che i “francesi, miscredenti e malvagi” andavano uccisi in qualsiasi modo. Ispirati o meno da quest’ordine, dagli inizi di quest’anno i terroristi islamici hanno attaccato con violenza inaudita in Francia.
Il 7 gennaio, diciassette persone sono state uccise a Parigi durante gli assalti contro il giornale satirico Charlie Hebdo e l’ipermercato kosher. Il 27 giugno, a Isere nelle Alpi francesi, un uomo, brandendo la bandiera nera degli islamisti, ha decapitato il suo capo e ha tentato di far esplodere una centrale a gas. Poi, solo la fortuna e la goffaggine degli autori ha impedito lo spargimento di sangue, come nei falliti attentati alle chiese di Villejuif, alle porte di Parigi il 22 aprile e sul treno Thalys, Amsterdam-Parigi il 21 agosto scorso. Ma con il ritorno dalla Siria e dall’Iraq di decine di combattenti jihadisti più esperti, così tanti che è impossibile mettere tutti sotto sorveglianza, il rischio di un attacco di proporzioni senza precedenti è aumentato costantemente, fino alla strage di Parigi di venerdì 13 novembre.
E che la Francia sia nel mirino degli integralisti islamici è noto da tempo. Alla Republique rimproverano una lunga lista di presunti “crimini” contro l’Islam: in Africa l’esercito francese ha combattuto gli islamisti in Mali e sostiene l’azione delle truppe pan-africane contro i terroristi nigeriani di Boko Haram, alleati dell’Isis; in Iraq i mirage francesi hanno condotto, dal settembre 2014, oltre 280 attacchi contro le basi del califfato e dallo scorso mese di ottobre, il Presidente Hollande ha ordinato anche di colpire le forze del Daesh in Siria. E la portaerei nucleare Charles de Gaulle, con a bordo un battaglione di fucilieri di marina, e alcuni incrociatori e fregate missilistiche sono state rischierate nel Mediterraneo orientale pronte ad intervenire in Siria e in Iraq contro gli jihadisti.
Oltre che per la sua azione sulla scena internazionale, la Francia è odiata dagli islamisti radicali per il suo concetto di laicità, che ha portato alla messa al bando del velo musulmano nelle scuole francesi nel 2004 e del velo integrale in strada dal 2010. La sua visione della libertà di espressione che permette una critica più ampia anche alla religione è vista dagli estremisti islamici come fumo negli occhi; l’attacco terroristico contro la redazione del settimane satirico Charlie Hebdo che ha pubblicato le vignette sul profeta Maometto è stato condotto con questo pretesto. Secondo poi un recente sondaggio dell'Institut Montaigne di Parigi, numerosi tra i 5 milioni di musulmani che vivono in Francia, la più grande comunità in Europa, si sentirebbero in qualche modo discriminati, in particolare nelle assunzioni. E in alcuni quartieri delle periferie delle grandi città francesi, da Parigi a Marsiglia, da Grenoble a Lione, dove si concentra la presenza di musulmani, il disagio e l’emarginazione sociale è evidente; oltre l’80 per cento dei musulmani residenti non ha la cittadinanza francese e oltre il 60 per cento dei detenuti nelle prigioni francesi sono musulmani.
Attrarre deboli menti di giovani senza arte né parte, senza occupazione stabile né futuro, spesso cresciuti nella violenza e nella scarsa educazione, è gioco facile per gli imam radicali e per i jihadisti reclutatori che operano sulla rete. Dalla Francia sono partiti centinaia di giovani musulmani alla volta della Siria e dell’Iraq, dove si sono arruolati nelle milizie del califfato e hanno imparato ad usare le armi e gli esplosivi e a non aver paura della morte. Sono almeno 571, secondo i dati in possesso alle forze di sicurezza di Parigi, i cittadini con passaporto francese o residenti da tempo in Francia che si troverebbero in Iraq e in Siria; altri 245 sarebbero rientrati in Francia e verrebbero attenzionati dalla polizia; 141 sarebbero i giovani morti in combattimento, secondo le ultime stime ufficiali.
Ma nessuno conosce i nomi, né le facce di molti altri, conquistati da un’ideologia folle e criminale, che non rientrano nei numeri ufficiali e che forse sono quelli più pericolosi e spietati, perché nascosti nella quotidianità dell’anonimato ma pronti all’azione in ogni momento. E questi combattenti dello Stato islamico sono tra i primi a chiedere attacchi contro il loro Paese di origine; abbiamo già visto i video di propaganda islamista, dove francesi camuffati sotto le tute nere dell’Isis minacciano azioni di guerra contro la Francia. Venerdì sera, nella sala del Bataclan, mentre assassinavano vigliaccamente giovani inermi e incolpevoli, i terroristi urlavano che la loro azione era per vendicare i bombardamenti francesi in Siria e in Iraq; ma gli attacchi, dato il loro livello di sofisticazione, probabilmente erano stati previsti prima dell’inizio delle operazioni militari francesi in Siria.
Gli analisti e gli esperti francesi di terrorismo non si aspettavano che il cambio di passo e strategia che ha tenuto insieme gli attacchi sanguinari di venerdì scorso potesse essere così repentino: operazioni simultanee e presa di ostaggi, con diversi uomini armati con kalashnikov e cinture esplosive, pronti al suicidio come kamikaze, era l’incubo-scenario temuto da mesi dai servizi anti-terrorismo che speravano però potesse restare solo un’ipotesi di studio. Era impossibile prevedere gli obiettivi in una metropoli come Parigi, piena di vita, in tutti i quartieri, ventiquattro ore al giorno. Nelle ultime settimane, i responsabili dei servizi di sicurezza avevano avvertito che gli islamisti potevano preparare attacchi di portata senza precedenti, contro i quali poco si poteva fare sul lato della prevenzione.
I responsabili dei servizi hanno studiato nei minimi dettagli l’attacco che un commando islamista aveva compiuto nel settembre 2013 al Westgate Mall di Nairobi, dove vennero uccise, sotto le telecamere delle televisioni di tutto il mondo, sessantotto persone, tra le quali molti europei, dopo quattro giorni di assedio. In quella occasione i terroristi braccati dalle forze speciali keniote si fecero saltare in aria con cinture esplosive, provocando una strage. Venerdì, al locale Bataclan la storia si è drammaticamente ripetuta. Gli attacchi di Parigi, e nei giorni precedenti quelli a Beirut e contro l’aereo russo nel Sinai, riflettono la drammatica evoluzione dell’organizzazione jihadista: i miliziani del Daesh sono ora in grado di moltiplicare le operazioni terroristiche su vasta scala su più fronti. Gli attacchi nei Paesi del Golfo dei mesi scorsi, tra il Kuwait e l’Arabia Saudita, ma anche in Tunisia e in Turchia, avevano già dimostrato la proiezione di potenza del gruppo terroristico.
Ma quest’ultima serie di attacchi mostra chiaramente che lo Stato islamico è in crescita. Nonostante la campagna aerea della coalizione internazionale che va avanti, seppur in forma troppo blanda, da oltre un anno, nonostante i bombardamenti russi dal 30 settembre e, infine, nonostante una recente serie di sconfitte sul campo, l’Isis è oggi più forte e più pericoloso di quanto non fosse al momento della proclamazione del “Califfato”. Ad Antalia, i Paesi del G20 hanno riaffermato la volontà comune di combattere lo stato islamico e di accelerare la soluzione della crisi siriana, dalla quale l’Isis trae alimento. Non c’è più tempo per negoziare e le diplomazie non possono più indugiare; i fatti di Parigi non devono più succedere e chi semina terrore e morte deve essere fermato subito. Il mondo libero lo deve alle vittime di Parigi!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:21