
Se l’origine dei buoni costumi si trova in una deferenza verso il mondo per cui saper vivere consiste, propriamente, nel rispettare gli obblighi, ne segue che la morale immanente ai miti contraddice quella che noi oggi professiamo. Essa ci insegna, in ogni caso, che una formula alla quale abbiamo dato tanto risalto, come “l’inferno è negli altri” non costituisce una proposizione filosofica, ma la testimonianza etnografica di una civiltà. Perché ci siamo abituati fin dall’infanzia a credere l’impurità fuori di noi, così C. Lèvi Strauss nell’origine des manierès de table, Paris, 1968.
La diatriba che è nata tra il professor Sabino Cassese, con un articolo sul Corriere della Sera del 24 ottobre e la risposta del Consiglio Superiore della Magistratura nelle parole del dottor Piergiorgio Morosini, estensore del documento relativo per fissare regole più rigorose per le toghe in politica, tema attuale e controverso, è forse marginale e sicuramente di impossibile soluzione. Le condotte di quei magistrati, che temporaneamente lasciano la toga per assumere incarichi di varia funzione fuori dall’ambito dell’esercizio giurisdizionale, sono personali e quindi tutte diverse sia per la specificità della funzione rivestita: amministrativa, di consulenza presso i ministeri, di rappresentanza politica (deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali ecc.) sia per la personalità e la struttura caratteriale del singolo, del suo senso del dovere, della sua capacità di autocritica e per dirla in modo semplice per l’attitudine a svolgere un serio esame di coscienza.
Peraltro, come diceva Oscar Wilde, la coerenza e la virtù degli imbecilli. L’uomo cambia ogni istante: nel fisico, nella mente, nel comportamento. L’inquietante estraneità di cui parla Freud nei “Saggi di psicanalisi applicata”, che maschera la vicinissima e indicibile trasgressione alla legge: “Il fascino che esercitano su di noi certi costumi, apparentemente assai lontani dai nostri, il sentimento contradditorio di presenza e di estraneità che essi ci suscitano, non tengono forse conto che questi costumi sono assai più vicini di quanto non sembra alle nostre usanze, di cui essi ci presentano un’immagine enigmatica, che richiede di essere descritta?”. Basterebbe riflettere che il compito del magistrato nell’applicare il dettato della norma alla 1 fattispecie concreta è proprio quello di verificare il grado della consapevolezza e volontà del presunto trasgressore e le aggravanti e le esimenti dei comportamenti assunti contro la legge. Un magistrato ha gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini secondo la Costituzione vigente e sostenere che svolge un lavoro speciale e delicato è cosa buona e giusta, nonché ovvia. Ma a ben vedere tutti i lavori sono speciali e delicati: l’insegnate, l’ingegnere, l’architetto, il muratore, l’idraulico, il geologo, lo psicanalista, il sociologo, il giornalista, il chimico, il fisico, il matematico, lo scrittore, il poeta, il compito di essere madre e padre, ecc. Mentre per tutti esiste il giudizio del magistrato, quando non è disattento, che ha la funzione di reprimere la violazioni alla legge, per i magistrati che violano la Legge il giudizio viene svolto dagli stessi magistrati, forse questo è il problema da risolvere sia per i magistrati che esondano temporaneamente in politica e sia per quelli che restano fedeli al proprio ruolo, che hanno scelto questo lavoro, sottoponendosi ad una dura selezione, poi continuando ad accrescere il loro sapere con studio ed esperienza. Solo le corporazioni si chiudono all’invadenza della democrazia, della dialettica, del confronto.
Il magistrato applica la legge, ma può anche non applicarla o applicarla erroneamente. Lasciare che si possa giudicare il proprio operato, è l’indicatore privilegiato della propria buona fede, della consapevolezza di avere agito con diligenza e competenza. I titolari dell’azione giurisdizionale dovrebbero essere impegnati a rimuovere il volto opaco della Giustizia, a ristabilire la fiducia dei cittadini in una giustizia sfigurata, polverizzata, azzerata da decenni di fallimenti, di inutili convegni, dibattiti, relazioni, documenti, programmi. Sicuramente i due giuristi sono di eccelso livello, ma, detto con umiltà e tolleranza, le loro energie potrebbero essere impiegate per rivoluzionare dalle radici il Sistema della Giustizia in Italia, che, come ben sanno, è talmente fallimentare e degradato che neppure un bambino ed una madre possono vivere liberi ed in pace in Italia nell’Era del web, ai quali hanno tolto ingiustamente il sorriso e sono in un carcere a cielo aperto. I princìpi e le leggi possono essere i più belli del mondo, ma se non vengono applicati o peggio applicati erroneamente, maldestramente non servono a nulla.
È il destino della metafisica deduttiva: principi senza realtà, realtà senza principi. La scelta di un insieme di metodi che potremmo chiamare empirico-analitici o di inferenza induttiva, equazioni e modelli matematici, possono risultare utili per affrontare il grande fenomeno sociale conosciuto come malfunzionamento dell’amministrazione della giustizia. Ciò comporta una chiara definizione di cosa si vuol spiegare: a) i fattori o condizioni sui quali si intende basare la spiegazione; b) 2 variabili indipendenti e dipendenti; c) la formulazione di ipotesi sulla relazione tra le due classi di variabili; d) la verifica (la non falsificazione) delle relazioni ipotizzate. Un metodo che introduce in una cultura giuridica prevalentemente logico deduttiva coefficienti, equazioni, modelli matematici, e soprattutto metodi di tipo induttivo alla ricerca di inferenze e soluzioni fornite dai dati oggettivi acquisiti sul campo, in breve affrontando il come è e non il come dovrebbe essere, viziato dalla lontananza dai dati. In altre parole, valorizzare il misurabile ed analizzabile, emarginando tutte quelle regole retoriche che presentano risultati e risoluzioni sull’orlo della tautologia.
Ovviamente per una indagine di tipo sociale non c’è un solo paradigma, ma ce ne sono tanti. Va quindi individuato quello o quelli più utili per raggiungere l’obiettivo prefigurato. La ricerca deve essere una ricerca oggettiva, pertanto, non può formulare giudizi di valore e i suoi risultati non possono diventare la base di una certa direzione politica. Il piano su cui poggia non è il piano della validità ideale dei valori, ma soltanto il piano della esistenza di fatto, non può dirci che questi valori valgono o non valgono, non può prescrivere un comportamento in luogo di un altro, può soltanto indagare i valori nella loro genesi storica. La ricerca scientifica è indipendente da qualsiasi presa di posizione valutativa; essa accerta ciò che è non determina ciò che deve essere.
Le scienze sociali non ammettono nel proprio ambito alcuna valutazione pratica, ma sono in rapporto con i valori che delimitano il loro oggetto entro la molteplicità del dato empirico. E la relazione di valore non è quindi un principio di valutazione, bensì un principio di scelta: essa serve a stabilire un campo di ricerca, nel quale l’indagine procede in maniera oggettiva per giungere alla spiegazione causale dei fenomeni. Tutti i libri di maggior successo sul tema della giustizia sono tutti di tipo descrittivo, come gran parte delle statistiche sul pianeta-giustizia, pochissime le ricerche che giungono ad una spiegazione causale dei fenomeni esaminati.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:22