
La sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato quella del Tar Lazio che aveva convalidato la creazione di un registro di Stato Civile del Comune di Roma per annotare le cosiddette “unioni civili” tra persone dello stesso sesso, celebrate all’estero, là dove esse sono consentite dalle leggi di quegli Stati, è tutt’altro che una imprevedibile, ulteriore batosta per il “giullare dei due Mondi” dalla fantasia più fertile e dalla memoria (per i rimborsi già ottenuti) assai labile.
È norma di diritto internazionale privato, recepita dalle “Preleggi” (art. 17) che la capacità di contrarre matrimonio è regolata dalla legge nazionale (nel caso italiana) dei contraenti e che solo la forma della celebrazione è quella prevista dalle leggi del luogo dove essa avviene. Non si capisce (cioè si capisce benissimo…) come il Tar avesse potuto essere di diverso avviso.
La questione si inserisce nella pochade del sindaco rubagalline, alla quale non mancano gli aspetti più variegati e buffonescamente complicati. Ma impone anche di affrontare quella che, invece, è o è divenuta, una cosa seria, cioè grave: le nozze gay. Può darsi che il mio troppo prolungato trascinarmi negli anni e nell’evoluzione dei costumi e della storia di due secoli mi privi della dovuta obiettività. Non posso concepire però di essere considerato un “personaggio d’altri tempi” ed un “laudator temporis acti”. Ma questa storia delle nozze gay mi vede sempre più contrario. Contrario all’equivoco che ad esse è sotteso. Che è una ambiguità inaccettabile. Nessuno mi dica che contraddico le mie ben stagionate convinzioni libertarie, le mie battaglie per i diritti civili. Queste nozze gay sono, in verità un passo indietro nel quadro culturale delle libertà civili. Anzitutto la denominazione è equivoca. Perché si parla di “unioni civili” e non di matrimonio? La legge, lo Stato, regolano l’unione civile, per essi il matrimonio è un’unione civile: “La legge non considera il matrimonio che come un contratto civile” recita il codice di Napoleone, su cui si modellarono tutte le leggi liberali. Ma c’è ben altro. Ho l’impressione, che di recente mi è stata confermata di qualche significativa conversazione, che questo affannarsi dei gay per avere “anche loro” un matrimonio, sia espressione di una “voglia di legittimazione” dell’omosessualità (di quelli che si sposerebbero e di quelli, assai di più, che non lo faranno comunque.) È una sorta di implicito corollario della proposizione della Chiesa Cattolica (e non solo di essa) secondo cui i rapporti sessuali sono “leciti” solo nell’ambito del matrimonio. E leciti, in qualche modo, sempre perché tali sono quelli nell’ambito matrimoniale. Che è poi il capovolgimento della realtà naturale e storica, perché è vero il contrario: è il matrimonio che è legittimato, reso utile e necessario come istituzioni dalla “liceità” (naturale) dei rapporti sessuali. È una concezione bacchettona, quella per cui ci vorrà un matrimonio (unione…) gay per rendere veramente accettabili, “leciti” i rapporti omosessuali anche fuori di tali “unioni legali”. I quali rapporti non hanno, invece, nessuna necessità di una “legittimazione”, se non per soddisfare insicurezze profonde di alcuni gay che non sembrano avere altro concetto della libertà che quello della elevazione ad istituzione del loro comportamento.
Io ritengo, tuttavia, che bisogna avere il massimo rispetto, oltre che delle libertà sessuali, anche di queste insicurezze e, in qualche modo, di questo bisogno di “proclamazione specifica della liceità” delle propensioni di questi nostri concittadini. Le persecuzioni bestiale cui li sottoposero secoli di intolleranza e di Santa Inquisizione, le condanne al rogo, le torture e, poi, il dileggio cui furono esposti anche dopo la fine della legislazione penale dei preti al riguardo, sono cose di cui tutta l’Umanità ha da rispondere oggi con uno speciale rispetto delle libertà così lungamente e ferocemente negate. Ma non è contraddicendo la funzione del diritto ed assecondando queste “insicurezze” che va assicurato e aumentato il rispetto della libertà. Dicevo prima, che qualche colloquio recente mi ha confermato la fondatezza di questa mia impressione.
Due diverse persone in due diverse occasioni, dicendosi scandalizzate per queste “cose dell’altro mondo” dei matrimoni gay, hanno poi concluso i loro “ragionamenti” più o meno nello stesso modo: “Alla fine, in mezzo a questa anarchia morale, a questo porcaio generalizzato (le espressioni erano più pesanti) questo matrimonio dei gay servisse almeno a mettere un po’ d’ordine”. Mi sono inteso rabbrividire: il matrimonio gay come strumento d’ordine, in sostituzione di quello che una volta era il rogo… Aiuto!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:24