Declino dei partiti,  crisi della democrazia

La definizione che meglio ha descritto lo spirito del nostro tempo, segnato dal venir meno dei legami di appartenenza alle identità collettive ed ai tradizionali corpi intermedi della società, appartiene al pensatore Zygmunt Bauman, che in un suo libro teorizzò l’idea geniale della società liquida.

Questa idea aiuta, meglio di altre definizioni e interpretazioni dello spirito del nostro tempo, a cogliere alcuni caratteri specifici della crisi della democrazia Italiana. Le cronache degli ultimi giorni sui giornali più importanti del nostro Paese hanno raccontato il naufragio e il fallimento della giunta guidata da Ignazio Marino. Oltre alla vicenda oscena e vergognosa, legata all’uso disinvolto delle spese per la rappresentanza del Comune da parte dell’ex sindaco di Roma, vi sono aspetti politici, in questa vicenda, che aiutano a capire le cause che sono all’origine del cattivo funzionamento della democrazia italiana.

Per troppo tempo si è creduto che le figure provenienti dalla società civile, poste a capo della amministrazioni delle grandi città oppure cooptate nelle istituzioni parlamentari dai maggiori partiti, avrebbero potuto assicurare la gestione della Polis con un livello di efficienza e di responsabilità superiore a quello di cui sono stati capaci i politici di professione. Accanto a questa illusione, che oramai oltre ad essere ingannevole ha perduto ogni valore e potere di fascinazione, viste le delusioni che la pubblica opinione ha dovuto sopportare in questi vent’anni, vi è stata la convinzione che il ruolo dei partiti doveva essere limitato e ridotto alla stregua di semplici comitati elettorali nella democrazia fondata sulla personalizzazione e il leaderismo. Questo fenomeno è stato accentuato dalla politica-spettacolo e dal rifiuto della figura del politico di professione, percepito come espressione di un apparato distante dai cittadini. Inoltre molto ha influito, nel determinare l’emarginazione e il ridimensionamento del ruolo dei partiti, la nuova e per molti versi sorprendente facilità di comunicare nell’Era di Internet, grazie alla quale nel nostro tempo vi è un flusso costante di informazioni e notizie.

Per avere conferma di questo processo di destrutturazione del sistema politico, che ha impoverito la vita democratica del nostro Paese e allontanato dalla partecipazione i cittadini animati da spirito civico, che ancora vi sono e si rifugiano nell’anti-politica greve e inconcludente, basta riflettere sul dato singolare e grave che, in vista del voto per le elezioni amministrative, i maggiori partiti faticano a trovare candidati credibili e di alto profilo. A Milano Giuliano Pisapia non vuole ricandidarsi, a Roma tanti sono gli aspiranti candidati, anche se nessuno appare in grado di ristabilire un rapporto di fiducia tra la città e la amministrazione capitolina; a Napoli, addirittura, vogliono ricandidare Antonio Bassolino, un uomo del passato. La vicenda di Ignazio Marino dimostra che, invece di abbandonarsi a moralismi retorici e inutili per condannare i vizi dei politici, è necessario pretendere una riforma dei partiti, invocare una serie di regole capaci di assicurare la democrazia all’interno dei medesimi partiti, riconoscere che una democrazia liberale, per funzionare correttamente e rappresentare i legittimi interessi dei cittadini, non può fare a meno della funzione che i partiti politici sono destinati ad esercitare. Infatti, in tutte le democrazie mature e avanzate è nei partiti che si forma una classe dirigente, luoghi nei quali ci si abitua al confronto con gli altri, ad elaborare proposte e programmi, ad essere seguiti e vagliati nel percorso di formazione culturale, prima di approdare nei ruoli dell’amministrazione pubblica in rappresentanza dei cittadini.

Oggi, come ha notato Antonio Polito, non ci sono più i partiti, ma uomini soli al comando nelle principali città italiane. Ora, pensare che una società complessa come la nostra possa avere uomini soli al comando è un grave errore culturale oltre che politico. Il governo delle società complesse presuppone la presenza di molte persone, che siano dotate, oltre che di passione civile e disinteresse personale, di una molteplicità di saperi e competenze. A vent’anni da Tangentopoli, mentre dilaga la corruzione più di prima e i cittadini sono delusi per la cattiva politica e l’amministrazione inefficiente, è giunto il momento di ripensare con realismo la funzione insostituibile e indispensabile che spetta ai partiti politici.

Max Weber delineò la distinzione tra il politico per vocazione e quello avviato ad esercitare tale ruolo, dopo avere ricevuto una formazione culturale adeguata. In questo periodo storico, nella società italiana vi è un altro aspetto fondamentale che non bisogna trascurare per capire la crisi del sistema rappresentativo e il rischio che l’anti-politica possa prevalere, con le implicazioni negative che questo fatto potrebbe avere. Un altro corpo intermedio oggi pare aver smarrito la sua capacità di interpretare e rappresentare gli interessi nazionali e generali. Il sindacato, negli anni Cinquanta, quando era guidato dalla figura autorevole e indimenticabile di Giuseppe Di Vittorio, seppe svolgere una grande funzione civile e democratica, favorendo lo sviluppo del progresso civile della nostra vita democratica. In quegli anni, in cui ebbe inizio l’industrializzazione e la modernizzazione dell’Italia, il sindacato unitario ottenne migliori condizioni di lavoro per i cittadini, si impegnò per favorire l’istruzione tra i ceti popolari e la riduzione dell’orario di lavoro, non esitò a pretendere che l’industria del nord fosse messa nelle condizioni di compiere investimenti produttivi nel mezzogiorno. Negli anni Settanta, il sindacato difese le istituzioni democratiche, minacciate dal terrorismo.

Purtroppo, e questo è un fatto innegabile che dimostra la crisi di questo corpo intermedio della nostra democrazia, il sindacato oggi è una istituzione che non ha più la capacità di spingere il proprio sguardo oltre la difesa degli interessi dei propri iscritti, garantiti e tutelati. In questi anni segnati da una lunga recessione economica, il dilemma non può essere più, come avveniva in passato, salario-occupazione. Infatti è giusto ridefinire le relazioni industriali nel nostro Paese, visto che l’esigenza preminente in questo momento è favorire un livello di crescita dell’economia del 2 e 3 per cento se si vuole elevare il livello della produttività e generare nuovi posti di lavoro. Questo impone che si arrivi a stipulare un patto tra il governo, il sindacato e le organizzazioni produttive. Per questo è giusto che il sindacato abbandoni la logica corporativa in cui è imprigionato e recuperi la capacità di rappresentare l’interesse generale dell’intero Paese. D’altronde, anche gli imprenditori devono comprendere quanto sia importante investire i profitti, legittimamente accumulati in un’economia di mercato, in innovazione tecnologica per migliorare e accrescere i livelli e le capacità competitive dell’economia italiana.

A questo proposito è necessario ricordare quanto è fondamentale ridurre il cuneo fiscale sui produttori di ricchezza e allentare la pressione fiscale sugli imprenditori. Soltanto se i corpi intermedi, partiti politici di diverso orientamento culturale e sindacati organizzati, ritroveranno la capacità, che paiono avere smarrito, di rappresentare e interpretare gli interessi generali, il nostro Paese potrà superare la crisi gravissima in cui è avviluppato a causa delle sue contraddizioni e dei suoi limiti storici. Una società nella quale s’incrina il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni, e in cui si indeboliscono fino a divenire ininfluenti i corpi intermedi, è destinata a generare conflitti sociali ed a rendere immutabili le ineguaglianze economiche.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:30