
San Pietro come la superba Basilica simbolo di Roma cristiana non c’entra. No, non c’entra neppure Ignazio Marino e le sue gabole americane smascherate dal Papa (dal Papa!). Ad essere precisi non c’entrerebbe neppure il Santo su cui Cristo volle edificare la sua Chiesa. Ma allora, di che stiamo parlando? Stiamo parlando di un altro Pietro, di un altro “Santo”, anzi di un “Santo subito!” come si dice in gergo, benché il soggetto indicato come tale sia di ben altra stoffa, di ben altra stazza e, diciamocelo, di ben altra non-religione.
Di un santo ateo, allora? Circa. Stiamo girando intorno ad un Pietro, lo avete già capito, che di cognome fa Ingrao e di non-religione fa “comunista”. Niente di male, intendiamoci. Se c’è stata una dote, invero rara sotto l’italico cielo, di non voltare gabbana alla propria ideologia, al proprio credo, cioè alla propria storia, quella è stata di Pietro Ingrao. Ma proprio per questo, proprio per la sua storia politica, una delle più lunghe e istruttive, sarebbe stato più logico, normale e corretto parlare di quella storia, di quel credo, di quel comunismo ingraiano che, invece, è stato di fatto santificato, issato sull’altare e innalzato alla gloria dei cieli. Nel solco della storiografia di sinistra che, come si sa, è quella che prevale da noi - da sempre! - e che, soprattutto, compie quel miracolo che neppure Dio può fare: cambiare la storia. Tic, tabù, totem, riflessi pavloviani, rebound, nostalgia canaglia, canzoni, sapore di sale adolescenziale/sapore di mare/sapore di te, vecchio, caro, indimenticabile Pietro. Nulla di male, se tutto questo apparato nostalgico si introiettasse nel privato, si accontentasse di un addio affettuoso, di un “Ciao Pietro!”.
Invece no, invece le paginate beatificanti e i servizi televisivi (tutti, all’infuori del Tg5 del sempre equilibrato Clemente Mimun) con la liturgica santificazione dello scomparso, sono dilagate compiendo un’opera di mistificazione - non si sa se consapevole o inconsapevole - che ha imposto ancora una volta quello stile impareggiabile dei “due pesi e due misure” caro a certe toghe fiammeggianti dei primi anni Novanta e oltre, e divenuto il leitmotiv, salvo rare eccezioni, di una spiegazione al popolo della nostra storia e dei suoi personaggi secondo un’ottica letteralmente rovesciata. Gli errori politici, anche i più grandi e più gravi, fra cui la difesa dello stalinismo, o meglio del partito guida, perinde ac cadaver, senza se e senza ma, anche a costo di vedere schiacciati e imprigionati i compagni di Budapest, di Praga, di Varsavia e prima ancora di Barcellona nel 1936 anche se allora Pietro vinceva i Littoriali, l’orgogliosamente vantata condivisione di decisioni, idee e percorsi che hanno sempre, dico sempre, imboccato i sentieri sbagliati provocando disastri, pardon catastrofi, nei Paesi comunisti e ritardi mostruosi in Italia; ebbene, di tutto questo bagaglio non s’è parlato. Tutto dimenticato, tutto perdonato, nessun cenno ai protagonisti che, al contrario, hanno intrapreso strade diverse a sinistra, hanno lottato per quel riformismo e liberalsocialismo che Ingrao, e tanti con lui, al solo sentirne il termine mostravano la piega del disgusto e del ripudio, come toccò infatti a Turati, poi al Nenni dopo il 1956 ungherese e infine a Bettino Craxi. E mi fermo qui, per carità di... Patria.
Noi, che rispettiamo per principio la storia e le scelte politiche di ciascuno, sappiamo che il danno maggiore che si possa compiere, anche al personaggio in questione, è di trasformarlo in una sorta di corpo mistico, di reliquia da venerare magari ignorandone i vistosi abbagli ideologici e, al tempo stesso, non evidenziando ciò che invece piaceva e continuerà a piacere di Ingraio, una sorta di mistero per cui la sua figura veniva osannata dai sessantottini proprio nel momento in cui taceva sui carri amati a Praga o quando, lui soprannominato l’eretico, espelleva dal Partito comunista quelli del Manifesto, e così via fino al “no” alla Bolognina con le lacrime di Achille Occhetto, ecc. Misteri della fede, forse. Ma anche il lato nascosto, discreto, di un personaggio che scriveva benissimo, cui piacevano la poesia e la musica e che, soprattutto, aveva capito che sarebbe stata la tivù l’unica, la vera tribuna riassuntiva e rappresentativa dei partiti, in primis del suo. Meglio scrivere poesie, si disse intelligentemente.
A proposito di tivù, il caso del presidente De Luca meriterebbe un aggiornato saggio critico intorno a quel circo mediatico giudiziario che il nostro Diaconale fu forse il primo in Italia a sviscerare in un suo libro. Il governatore campano, con quell’acccusa di camorra ha, come dire, sfregiato una testata giornalistica come faceva e fa Grillo e una volta Bossi e un po’ Salvini, con le naturali proteste degli interessati. Eppure l’aspetto più ghiotto sta nella cosiddetta dialettica tutta interna al Partito democratico, posto che quella testata offesa “sanguinosamente” da De Luca appartenga alla stessa area. In tal caso, come ha stigmatizzato un autorevole deputato renziano prendendo le difese dell’ex sindaco di Salerno, non deve essersi accorta che ha vinto Renzi sol che si osservino i telegiornali e i talk tutti impostati sul pessimismo, tutti in lutto per il Paese che non ce la fa, tutti contro il governo di Matteo, offrendoci un’immagine storicamente sbagliata. Ah, questa mania di voleve cambiare la storia. E poi, da parte della tivù! Chi crede di essere, Dio?
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 15:24